E l’America scopre la dolce vita da grassi
DAL NOSTRO
INVIATO
NEW
YORK
—Troppo poco, troppo tardi: molti
economisti e nutrizionisti si stanno convincendo
che gli sforzi
in atto non basteranno ad arrestare la vera
e propria epidemia di obesità che
minaccia la salute degli americani. Per cambiare davvero la situazione attuale (un terzo
degli adulti obesi, un altro terzo sovrappeso) che è figlia del modello di sviluppo economico
dell’ultimo mezzo secolo,
la gente dovrebbe, infatti, cambiare radicalmente le sue abitudini, spendendo — tra l’altro — molto di più per cibi
freschi e palestre. Eppure, dopo decenni di
continuo deterioramento dei
costumi alimentari, negli Stati Uniti
qualcosa si sta muovendo.
Grazie a un accordo mediato
da Bill Clinton, nelle scuole i distributori
di bibite gasate e zuccherate sono state sostituite da «dispenser » di acqua minerale e succhi di frutta.
Assicurazioni sanitarie e datori
di lavoro offrono incentivi a chi si impegna a migliorare
la dieta e a fare più esercizio fisico. Alcune catene della ristorazione industriale — soprattutto
McDonald’s — hanno ora in menù insalate e cibi «low fat». Insomma, l’America sprofondata
nell’emergenza- obesità sembra voler reagire.
Fino al punto che un personaggio
come l’ex governatore dell’Arkansas Mike Huckabee, nella «scalata» alla Casa Bianca, si serve anche della sua
vittoriosa battaglia contro la «ciccia »: pesava 135 chili, è riuscito a buttarne via 55.
Ma, secondo alcuni economisti dell’alimentazione, tutto questo servirà
a poco: l’evoluzione del sistema produttivo e delle abitudini sociali che ha portato alla situazione attuale— dolci e cibi grassi prodotti
industrialmente a costi bassissimi, vita sedentaria, città costruite a «misura di auto», dilatazione degli orari di lavoro—
non sembra più reversibile. Inoltre molti obesi cominciano
a considerare i chili in più come un prezzo
accettabile per il loro «stile di vita» rilassato e un po’ decadente. La «ciccia» non è diventata trendy, ma può essere un compromesso
accettabile: la pubblicità,
che per gli spot usa modelli e modelle sempre più «in carne», favorisce questa nuova psicologia.
E, in fondo, viene in aiuto anche la medicina: certo, gli obesi sanno
di essere più esposti a malattie
come il diabete
e l’ipertensione e di avere un’aspettativa di vita inferiore ai magri.
Ma le nuove cure consentono di controllare meglio la situazione e comunque gli obesi
rischiano meno di un’altra categoria
che ha deciso di non rinunciare ai piaceri di
uno stile di vita assai salutare: i fumatori.
Eric Finkelstein, celebre economista
della nutrizione della Duke University, ha condotto
un’indagine tra varie fasce della
popolazione, scoprendo che gli obesi
pensano che la loro vita media sarà di 74 anni, 4 in meno delle persone
in forma: un «gap» che non li
spaventa fino al punto di spingerli
ad affrontare i costi e i disagi
di una vita che andrebbe rivoluzionata.
Nel suo nuovo libro,
The Fattening of America («L’America che ingrassa»), Finkelstein sostiene che l’obesità
è la conseguenza naturale di un’economia avanzata. A parità di contenuto energetico,
ad esempio, frutta e verdura costano dieci volte più
dei cibi ad alta densità
di grassi e calorie e sono più facili
da conservare e distribuire. Differenze che non sono superabili
con qualche incentivo.
E il problema non è
certo nato ieri: da quando,
alla fine degli anni ’50, il presidente
Eisenhower invitò per primo gli
americani amangiare di meno e a riflettere
sulle conseguenze della motorizzazione di massa, gli adulti obesi sono
saliti dal 13 al 33 per
cento della popolazione. A livello mondiale, nota Finkelstein, solo i ricchissimi ex pastori nomadi dell’Arabia Saudita sono messi
peggio (35 per cento di obesi). Rimangono gli sforzi della società e la speranza di un impegno individuale. Che però, per dare risultati significativi, dovrebbe essere ferreo. Richard Graboyes, docente di Economia della
salute alla Virginia University, qualche tempo
fa ha suggerito sulla rivista
Forbes una ricetta estrema a chi vuole affrontare davvero lo sforzo titanico di dimagrire: «Ponetevi l’obiettivo di perdere 26 libbre
(12 chili) in 26 settimane. Versate 6.000 dollari
al vostro notaio.
Se alla fine del periodo avrete centrato l’obiettivo, lui vi restituirà la somma. Altrimenti la verserà non a un ente di
beneficenza, ma a un vostro
nemico. Ad esempio, se siete dei "liberal" di sinistra, potreste
scegliere di donare i soldi
persi per l’incapacità di rispettare la dieta alla Nra, la lobby delle armi, oppure alla
Biblioteca presidenziale di George Bush». Una ricetta paradossale
che riflette la difficoltà di un’inversione
di rotta. Cambiare costa fatica e non è per tutti un obiettivo desiderabile: l’Associazione nazionale per l’Accettazione dei Grassi — quella del «fat
liberation movement» degli anni
’70—ha rialzato la testa, mentre l’«orgoglio calorico» si riaffaccia
nelle catene della ristorazione industriale che, a differenza di McDonald’s, puntano tutto sull’offerta
di cibi «estremi»: il famoso
«Monster Thickburger» della
catena Hardee’s — megapanino
da 1.410 calorie e 107 grammi
di grasso — è stato battuto dal
«Double Burger» di Carl’s Jr
(1.520 calorie e 111 grammi di
grasso) mentre il «Double Quarter Pounder» di McDonald’s, con «appena » 740
calorie, arranca nelle retrovie, superato ormai anche dal
«Baconator » (830 calorie e 51 grammi
di grasso) appena messo sul
mercato da Wendy’s. Jay
Leno, principe della satira tv,
celebra questi prodotti con battute al vetriolo («panini straordinari, ve li danno già
in una scatola a forma di cassa da
morto») che però, si è scoperto,
esaltano i consumatori anziché spaventarli. Cke, la società proprietaria dei 3.000 ristoranti delle catene Carl’s Jr e Hardee’s, registra vendite record: più 31 per cento rispetto al 2000.
Nessun altro, nella ristorazione,
è riuscito a fare tanto.
Massimo Gaggi
19 gennaio 2008