L’Iraq non deve far dimenticare l’11 settembre

 

Gerardo Morina

 

A forza di additare la strada sbagliata (la guerra in Iraq e le sue conseguenze) si corre il rischio di dimenticare il punto dal quale tutto ebbe origine. Se la condanna del dopo fa perdere di vista la scintilla iniziale, se il cratere in parte spianato di Ground Zero a Manhattan è diventato un’attrazione turistica come le altre, se le voci di chi non c’è più si appannano nel ricordo di parenti e amici, tutto questo non è un buon motivo per non continuare a ricordare. Con perfetto tempismo, a rammentarcelo è l’ultimo video trasmesso in questi giorni da Osama bin Laden.O chi per lui. Il suo ritorno in scena alla vigilia del sesto anniversario dell’11 settembre 2001, rappresenta secondo la CIA la conferma che i leader storici di Al Qaida sono sopravvissuti e hanno oggi ricostituito un nuovo gruppo dirigente. Se forse non è più  solo Osama in persona a tutto sovrintendere, l’intelligence americana parla di una «Al Qaida Central», ovvero di una specie di consiglio di amministrazione della più pericolosa organizzazione terrorista al mondo. Il video è ancora una volta tempestivo perché interviene in una fase cruciale del confronto interno all’America sull’Iraq (da oggi inizia infatti davanti al Congresso  l’audizione di David Petraeus, comandante delle forze USA a Baghdad). Nel suo invito ad aderire all’Islam, il fine del video è di accomunare tutti gli occidentali (e non solo quindi gli americani) in un’unica condanna, di costringerli a meditare sulle prospettive di nuovi attacchi terroristici e di presentare il conflitto in Iraq come uno scontro di civiltà. «Al Qaida Central» conosce perfettamente le divisioni che la guerra ha causato sulle due sponde dell’Atlantico e getta benzina  sul fuoco diffuso dell’antiamericanismo. Ma è una trappola di cui è necessario accorgersi in anticipo. Perché un conto sono gli errori compiuti dall’amministrazione Bush nella conduzione della guerra in Iraq, un altro è usare tale pretesto per augurarsi che l’America vada alla deriva. Comunque vada a finire, la soluzione del conflitto iracheno esige tempi lunghi, talmente lunghi che si protrarranno con ogni probabilità fino all’amministrazione che succederà a a quella di Bush. Se l’America ha sbagliato, ciò non significa che vada messa al bando. Mostrano di vederla così   leader come Sarkozy, Brown, Merkel che proprio in una prospettiva a medio o lungo termine stanno cercando di riannodare i legami di una solidarietà transatlantica. In nome della comune appartenenza a Paesi democratici, ivi compresa l’America. L’America tout court, trepubblicana democratica. L’America come custode o compartecipe dei valori occidentali. Perché il momento storico è cruciale e una disfatta dell’America, a cominciare dalla rinuncia alla lotta al terrorismo, avrebbe  conseguenze catastrofiche su entrambe le sponde dell’Atlantico. Perché l’alternativa sarebbe il predominio di quelle che vengono ormai chiamate «autocrazie» come Cina e Russia, liberali sul piano economico, autoritarie nella loro essenza politica. Un modello che difficilmente può allettare l’Occidente. Fin qui gli aspetti politici e strategici insiti nel significato di continuare a ricordare l’anniversario dell’11 settembre.

 

Ma c’è un altro motivo per cui i tragici eventi dell’11/9 non possono essere dimenticati. Il motivo è che sei anni non sono stati sufficienti per elaborare un lutto personale (per l’America) e collettivo insieme. Perché elaborarlo significa accettare la realtà. Che tale momento non sia arrivato è dimostrato non solo dal  proliferare degli adepti della teoria della cospirazione, un modo come un altro per scatenare la fantasia liberatoria delle proprie angosce; ma anche dal fatto che la visione dell’11 settembre 2001 è ancora un evento «irrapresentabile», al di fuori della nostra capacità di comprensione degli eventi, che fatichiamo a decifrare e a metabolizzare pur di fronte alla  loro  continua rappresentazione visiva.

 

Vogliamo azzardarne un’interpretazione filosofica? Pur a distanza di tempo, l’11 settembre ci tormenta perché ha scardinato per metà le tesi fondamentali contenute nel celebre «Il mondo come volontà e rappresentazione» del filosofo ottocentesco Arthur Schopenauer. In base a questa teoria, da un lato il mondo, dominato dal principio di causalità, è volontà e precisamente volontà di vivere, volontà cieca, irrazionale, senza giustificazione e senza meta. Dall’altro lato, il mondo è «rappresentazione», cioè conoscenza, in quanto la rappresentazione implica sempre un soggetto che conosce e un oggetto conosciuto. Ma è in quest’ultimo aspetto che risultiamo sguarniti e indifesi. Perché vaghiamo nella mancata conoscenza di una dinamica ancora talmente disumana da renderci incapaci di assimilarla.