The Bomb

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Fu la sera del 23 ottobre 1963, alle 22 e 52 ora esatta di Washington, che il genio malefico uscito vent’ anni prima dalla lampada magica di Einstein, Oppenheimer e Fermi sembrò alzarsi per inghiottire chi lo aveva per primo scatenato contro Hiroshima. Quando il telegramma di Kruscev annunciò che ogni interferenza contro le navi sovietiche in rotta verso Cuba sarebbe stata considerata come una dichiarazione di guerra, «andammo a casa portando in tasca le tessere per entrare nelle caverne segrete antiatomiche», racconterà il portavoce di Kennedy, Pierre Salinger, «convinti che quella sarebbe stata l’ ultima notte del mondo come lo avevamo conosciuto». Il genio dell’ olocausto nucleare, per quella volta, rientrò imbrigliato dalla ragione e con esso si assopì la paura che aveva accompagnato a scuola, nella vita quotidiana, nelle fabbriche, nei palazzi d’ uffici marcati dai simboli degli inutili rifugi nelle cantine ormai sbiaditi ovunque in America, l’ infanzia e la vita di una generazione di americani che credettero di avere per sempre vinto almeno «lo scenario del dottor Stranamore». E che invece ora devono spiegare ai loro figli che i demoni reali creati dagli uomini, come i vampiri immaginati dalle leggende, non muoiono davvero mai. Ritornano, con volti diversi, nomi cambiati, aspetti grotteschi come le caricature del tormentatore dei coreani del Nord, Kim Jong-Ilo del demagogo furioso dell’ Iran teocrarico, Ahmadinejad. Per risibili che appaiano ancora le armi e gli arsenali del tragico clown coreano, o ancora incerte siano le vere intenzioni della marionetta iraniana dei burattinai di Teheran, la resurrezione di questa paura della paure, con la sua promessa della “fine del mondo”,è soltanto la dimostrazione ovvia che ciò che è stato inventato non potrà più essere disinventato. E il diavolo che Usa, Urss, Francia e Gran Bretagna s’ illudevano di avere almeno rinchiuso nella giara dei trattati sulla non proliferazione si aggira libero per il mondo, come una tentazione di potenza alla quale pochi sanno resistere. Se oggi la paura non ha più il volto sinistramente paterno di Stalin o contadino di Kruscev, essa riflette nei frammenti delle specchio nucleare andato in frantumi dozzine di apprendisti stregoni che in esso si contemplano. Iran e Corea del Nord sono i vampiri di questa riedizione della paura da “ultima spiaggia”, soprattutto per coloro che potrebbero essere a tiro dei loro missili, come il Giappone, Israele o l’ intero Medio Oriente. Ma il cuore davvero tenebroso del nuovo terrore sta in quel Pakistan che ha i mezzi, la potenza, i vettori per lanciare un attacco. E nel quale le avanguardie dei Taliban marciano e sono a qualche decina di chilometri dalla capitale dove un governo nominale e corrotto vacilla nella propria impotenza. Edè proprio in nazioni come il Pakistan, dal quale partì la diffusione dei segreti atomici venduti da scienziati venali ai miglior offerenti, che la nuova paura della bomba assume il proprio volto più spaventoso. Nelle ore dell’ ottobre di 36 anni or sono, mentre Kennedy e Kruscev si scambiavano telegrammi per vie oblique non avendo ancora il mitico “telefono rosso” diretto, in realtà una telescrivente, più ancora della ragione poté la ragionvole certezza della « Mad », l’ acronimo perfetto che significa «pazzo» ma sta per « Mutual Assured Distruction », la certezza che ogni attacco si sarebbe ritorto contro chi lo aveva lanciato, garantendo una rappresaglia talmente orribile da rendere assurdo il concetto stesso di “vittoria”. Il paradosso che emerse poi anche in film popolari e garbati come «War Games» e negli esercizi teorici degli strateghi era che una guerra nucleare non poteva essere vinta, neppure quando il diavoletto si incarnò negli anni ‘ 70 in sistemi di guida sempre più precisi e in bombe “di teatro”, più piccole e quindi capaci di annientare una città senza cancellare con essa un’ intera nazione. Di nuovo, negli anni ‘ 80, l’ equilibrio fu ristabilito fra i famosi e ora quasi dimenticati SS20 e 21 sovietici e i Cruise e Pershing americani, che sollevarono l’ ultima ondata di paura, quella del “conflitto limitato”, combattuto frai due ciclopi accecati dentro i confini dell’ Europa. Anche l’ ultima telescrivente diretta fra Cremlino e Studio Ovale fu mandata in soffitta, sottraendo al mondo una delle principale fonti di barzellette antisovietichee antiamericane. Quelle che i telescriventisti si scambiavano periodicamente per controllare che il collegamento funzionasse. Così palesemente insensata era stata questa corsa alla reciproca distruzione multipla – fino alla oscena ipotesi della bomba al neutrone capace di polverizzare la vita senza demolire gli edifici, mai dispiegata – dunque di realizzare lo scenario romanzesco dell’ Ultima Spiaggia, e così tragicamente ridicolo era il mantenimento di arsenali in grado di distruggere il mondo sei volte, secondo i calcoli volutamente assurdi dell’ astrofisico Carl Sagan, come se si potesse uccidere qualcuno per sei volte, che persino il grande crociato contro l’ impero del male e sognatore di fortilizi spaziali, Ronald Reagan, ebbe la propria epifania. Si convertì alla “opzione z e r o ” , q u a n d o s b a l o r d ì Mikhail Gorbaciov, e sbigottì i suoi stessi generali e ministri, proponendo a Mosca, d’ impulso nella bianca casetta del porto di Rejkjavik, lo “zeroa zero” nucleare. La demolizione totale dei rispettivi arsenali. Non avvenne, e non sarebbe potuta avvenire, perché nel frattempo il genio della lampada aveva raggiunto il Sudafrica, Israele (che fingeva di negarlo), la Cina, l’ India, il Pakistan, oltre alle due nazioni autorizzate, Franciae Regno Unito. Ma quel gesto di Reagan, e poi il collasso dell’ Unione Sovietica, avevano spento nella coscienza dell’ America, della Russia, dell’ Europa la paura che aveva accompagnato i figli della Bomba, nati e cresciuti dopo Hiroshima e Nagasaki. Non più, perché malauguratamente nei nuovi apprendisti stregoni è passata anche “la paura della paura”. Non torneremo nel futuro visibile, vista la lontananza che ancora separa Irane Corea del Nord da vettori di lancio per le loro possibilio future armi atomiche, la cui utilità strategica dipende interamente dai mezzi per trasportarla. Non rivedremo i bambini delle elementari e degli asili americani addestrati dalle maestre a nascondersi sotto i banchi di formica per proteggersi da una deflagrazione nucleare, esercizio inventato soltanto, come i rifugi venduti e costruiti a decine di migliaia a bravi padri di famiglia che li scavavano nei giardinetti delle case, per dare la sensazione di “far qualcosa”. Nonostante gli esperti, medici in prima fila, ripetessero che sopravvivere a uno scambio di bombe da molti megatoni – ciascuna da almeno un milione di tonnellate di tritolo – fosse un ossimoro, una contraddizione in termini, e i più fortunati sarebbero stati i primi a morire polverizzati, come l’ esperienza dell’ Enola Gay aveva dimostrato. Ma non torneremo neppure all’ ingranaggio autobloccante del « Mad », della Mutual Assured Destruction, la distruzione reciproca certa e dell’ “equilibrio del terrore”, perché nessun equilibrio militare, politico o di intenzioni è possibile fra i nuovi apprendisti di Hiroshima e gli Stati Uniti, la Russia o la Cina. La crisi di Cuba mise americani e russi di fronte alla devastante irrazionalità della loro corsa alle armi nucleari perché fece scattare anche in dirigenti politici fortemente ideologizzati il banale istinto animale di autoconservazione. Ma se i nuovi dottor Stranamore in possesso dell’ arma della “fine del mondo” dovessero fare del martirio e dell’ autodistruzione in un Armageddon finale il senso della loro bomba, quale deterrenza sarebbe possibile? La sceneggiatura della nuova paura che si sta lentamente sovrapponendo e sedimentando con quella dell’ aggressione terroristica ancora orribilmente artigianale come furono l’ 11 settembre o le stragi spagnole, non è quella di un dittatore demente, di uno Stalin in preda a paranoia finale, deciso a organizzare la distruzione su scala industriale dell’ avversario, ad accelerare l’ avven

to del paradiso dei lavoratori prima di soccombere. È quella di una futura Enola Gay – perché l’ aereo dell’ apocalisse resta e pesa nella coscienza americana dal giorno di Hiroshima- pilotata da kamikaze ansiosi di immolarsi, come il comandante cowboy del B52 raccontato da Stanley Kubrick, nell’ ultima galoppata in sella a una bomba, per rispondere a un incontrollabile precetto divino. Per diventare finalmente quello che Robert Oppenheimer comprese di essere stato, citando il testo sacro dell’ induismo: «Io sono divenuto il Dio distruttore di mondi». – VITTORIO ZUCCONI

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