A Punch in Europe’s Stomach

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Un pugno nello stomaco dell’Europa

– di Adriana Cerretelli

Sarà il pugno nello stomaco che servirà all’Europa per uscire dal suo autismo, ritrovare la volontà di esistere da protagonista smettendola di vivacchiare tra beata indifferenza, colpevole ignavia e metodica inazione nel nuovo mondo che le sta crollando addosso? Dovrà esserlo perché il 45° presidente degli Stati Uniti non le offre scelte alternative né scappatoie, semplicemente volta pagina e annuncia un nuovo ordine mondiale dove viene prima di tutto l’America, «di nuovo forte, sicura, prospera e orgogliosa», un’America patriottica, protezionista, revanscista e meno generosa con il resto del mondo.

L’Europa è avvisata. Donald Trump farà sul serio. Sarà quasi certamente il salutare shock esterno che la costringerà a reagire al proprio quieto vivere e ai propri temporeggiamenti: a contarsi, riorganizzarsi e ricostruirsi su nuove architetture, nuove regole e nuovi Trattati. Del resto, ancora prima di approdare alla Casa Bianca, il neo presidente aveva provveduto a far piazza pulita di luoghi comuni, pilastri e certezze del Dopoguerra su cui per decenni l’Unione si è accomodata, convinta a torto della loro eternità.

Certo, la svolta americana la coglie nel momento peggiore, nel pieno di un anno elettorale importante, che vedrà alle urne Francia e Germania, i suoi pesi massimi, insieme a Olanda e forse anche Italia. Il 2017 si annuncia dunque come un anno perso: troppo rischioso prendere decisioni di respiro europeo in un’Unione che perde consensi popolari, dove democrazie e partiti tradizionali appaiono fragilizzati, i movimenti nazionalisti, euroscettici e anti-sistema hanno il vento in poppa.

Il gioco del surplace per altri 10-12 mesi rischia però di presentare all’Europa un conto salatissimo. Proibitivo? Se dovesse realizzare solo la metà delle promesse per far tornare grande l’America, il neo-presidente stravolgerà gli equilibri mondiali e l’Europa potrà a stare inerte a guardare solo a proprio rischio.

Di più. Trump ne ha pubblicamente stanato tutti i limiti e le debolezze, diventando di fatto la voce stentorea della sua cattiva coscienza, mettendola alle strette di fronte a se stessa e al mondo intero, davanti al quale oggi appare ancora più fragile e anche delegittimata: gli Stati Uniti sono il suo alleato storico e il principale partner economico (e viceversa), insieme fanno il 50% del Pil globale e un terzo degli scambi internazionali. Oggi però sono anche il maggiore critico.

Certo, smontare simili legami di interdipendenza costa a tutti ma, a meno che non provveda rapidamente a smentirlo con i fatti, Trump potrebbe essere tentato di giustificarsi dicendo che ormai l’Europa è un’entità inutile e inefficace, un peso morto più che un prezioso alter-ego, come una volta.

Per quanto approssimativa, la sua fotografia dell’Unione ne illumina i mali insieme agli incubi. Non gli basta infatti benedire Brexit e offrire a Londra un Trattato di libero scambio rafforzandone la posizione nei negoziati sul divorzio dall’Ue (non importa se l’accordo non è fattibile finchè gli inglesi sono nell’Unione). Trump va oltre evocando diserzioni future, mestando così nei torbidi di divisioni e spinte centrifughe europee, nelle crescenti difficoltà di integrazione e convivenza interna: dall’euro alla ripresa debole, crisi migratoria, terrorismo, sicurezza e difesa. Il tutto mentre la proiezione esterna si fa sempre più incerta e faticosa: dal Medio Oriente all’Africa, all’Est Europa con la Moldavia che ripudia l’intesa con l’Ue optando per la Russia e l’Ucraina che barcolla tradita.

Quando parla dell’Europa al servizio della Germania, Trump provoca ma dice mezze verità, toccando un altro nervo scoperto del club: per continuare a esistere, deve rafforzarsi e riformarsi al più presto ma non può poiché diffida di sé stesso, dei suoi soci (troppi?), dell’egemonia tedesca e dei suoi interlocutori deboli.

Se dice che la Nato è obsoleta esagera ma costringe l’Europa a fare quello che finora non ha mai voluto fare: assumersi più responsabilità e oneri finanziari per la difesa in un mondo, anche il suo, sempre più instabile, caotico e insicuro. E quando sembra flirtare con la Russia di Vladimir Putin, minacciandola di intendenza con lo storico antagonista, frusta la vulnerabilità europea, che riposa su una scelta di cinica pigrizia, anche ideologica, non di impotenza politico-strategica obbligata. L’elegia del protezionismo, invece, è un’arma a doppio taglio che alla lunga si ritorce su chi la usa.

È troppo presto per precipitarsi alle conclusioni, dando per scontato che su queste basi il rapporto transatlantico sia destinato a morire. Di sicuro, per resistere al ciclone Trump l’Europa dovrà cambiare, tornare a sua volta grande. Per molti aspetti parlare la sua stessa lingua. Ne sarà capace?

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