The President Challenges the US Judiciary

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La sfida del presidente alla magistratura Usa

È in corso una sfida negli Stati Uniti infinitamente più insidiosa dei muri, dei blocchi, delle regole sulla finanza che il Presidente Donald Trump ha aperto: è la riapertura della sfida storica del potere esecutivo contro il potere giudiziario per affermare la superiorità del primo – il governo – sul secondo, la magistratura. Non è una novità, nella storia americana come in quella di tutte le democrazie che si reggono sugli equilibri dei poteri costituzionali e non soltanto sul voto e la sfida si ripresenta puntuale generazione dopo generazione. Già in Italia un partito di governo, la allora Lega Nord, invocava la supremazia di un generico “popolo”, il proprio, sopra la magistratura.

Quando Trump definisce in uno dei suoi cervellotici tweet il giudice federale James Robard come il “cosiddetto giudice” per avere osato il fermo temporaneo del divieto d’ingresso riservato ai viaggiatori provenienti da sei paesi arabi e dall’Iran per dubbi sulla sua legalità e costituzionalità, così come aveva accusato un altro giudice di avere permesso il processo contro la sua università truffa soltanto perchè era di origine messicana, mette in pericolo quella separazione dei poteri che rende una democrazia una nazione fondata sulle leggi e non sugli uomini o le donne.

È quello che molti suoi predecessori di altre appartenze politiche, come Franklyn Delano Roosevelt e Richard Nixon, avevano tentato, per ragioni molto diverse, di fare, essendo fermati prima di compromettere irreparabilmente i meccanismi di controllo e di equilibrio che hanno permesso anche a una nazione turbolenta, violenta, multiculturale come gli USA di sopravvivere per due secoli e non franare sulle proprie contraddizioni.

I presidenti, come i governi, fortunatamente passano. Le elezioni danno risultati diversi e a volte opposti anche a poca distanza di anni, secondo il vento degli umori. Ma il rispetto del potere esecutivo, dei governi, per l’indipendenza della magistratura, anche quando essa commetta errori, il riconoscimento del compito fondamentale di applicare le leggi, è la chiave di volta che regge l’arco della legalità e della convivenza.

Trump, nella sua cialtronesca superficialità da protagonista di Reality forse neppure si rende conto della minacca storica posta da quel suo definire un giudice federale “cosiddetto”, come fosse soltanto un sospetto fresco di arresto, un usurpatore, dimenticando che questo magistrato, nominato da George W Bush, fu esaminato e approvato dal Senato con 99 voti a 0.

La tentazione di deligittimare la magistratura è comune a chiunque sia sottoposto a un giudizio sgradito e se la persona colpita è un poltico, ogni processo od ogni inchiesta apparià inevitabilmente come “un processo politico”. Ma nella sua ignoranza imbonitoria, preoccupato soltanto della propria vanità offesa, non capisce che se un Presidente, Capo dello Stato e del governo, mette in discussione una decisione giudiziaria, nessuno più dovrà sentirsi vincolato da altri “cosiddetti” giudici.

La legge e la sua applicazione diventano “cosiddette”, presunte, relative e anche l’ultima istituzione che ancora goda di qualche rispetto popolare crolla. E la democrazia, che si fonda sulle regole, non sul volere assoluto di un sovrano eletto pro tempore, diventa inesorabilmente una “cosiddetta democrazia”.

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