Trump’s Foreign Policy: There’s Some Method to His Madness

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La politica estera di Trump: c’è del metodo nella follia

Analisi. Secondo molti osservatori le minacce del presidente Usa a Corea del Nord e Venezuela fanno perdere credibilità all’America. Ma la linea del tycoon ha il vantaggio di spiazzare gli interlocutori e potrebbe anche dare dei risultati

dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI

Donald Trump e la (vaga) minaccia dell’intervento armato: dopo la Corea del Nord anche il Venezuela? C’è del metodo nell’apparente follia del presidente americano? Chiunque – a sinistra o a destra – si basi sulle regole del gioco tradizionali, giudica questa politica estera semplicemente disastrosa. A colpi di tweet il presidente americano lancia minacce a vanvera, non seguite dai fatti, e che alcuni suoi collaboratori poi smentiscono o quantomeno smorzano e ridimensionano. Grande agitazione, titoloni sui media, senza conseguenze. Così l’America perde credibilità, e anche l’impatto psicologico delle minacce tenderà ad avere un rendimento decrescente. Se ci si abitua ad un presidente fanfarone, che le spara grosse, pian piano nessuno gli darà più retta. Questa è una delle critiche che viene dall’establishment, democratico o repubblicano che sia.

Va ricordato però che l’establishment non ha alle spalle un bilancio esaltante in politica estera. Per quanto riguarda la Corea del Nord, ad esempio, né i democratici né i repubblicani sono mai riusciti a fermare il programma nucleare. Il problema esiste da ben tre presidenze Usa: Clinton, Bush, Obama. Ciascuno ci ha provato, tutti hanno fallito. La minaccia nordcoreana è giunta ai livelli attuali – con missili e testate nucleari forse capaci di colpire gli stessi Stati Uniti – proprio perché in precedenza ogni approccio tradizionale è stato un fiasco. Dare tutta la colpa all’incompetenza e al dilettantismo dell’attuale presidente significa soffrire di amnesia: è da 20 anni che l’America si fa prendere in giro da Pyongyang. E dai cinesi, nella misura in cui mantengono economicamente un regime fallito pur condannando diplomaticamente i suoi test atomici e missilistici.

L’approccio di Trump ha il vantaggio di essere davvero nuovo. Assomiglia alla tattica di una start-up della Silicon Valley: “disruptive”, dirompente, destabilizzante. Nell’economia digitale c’è chi teorizza che l’innovazione passa dalla distruzione, il progresso avanza per strappi e traumi. E’ ragionando su questa linea che si può tentare di scorgere un metodo nella follia. Con gli strumenti della diplomazia classica l’America non ha ottenuto nulla sul dossier nucleare nordcoreano, né dal regime di Pyongyang né dai suoi protettori di Pechino. Forse introducendo uno shock da incertezza sulle sue mosse, Trump può provocare qualche ripensamento. Anche in Venezuela gli appelli ragionevoli e moderati – vedi papa Francesco – non hanno smosso dalla sua linea autoritaria un regime impazzito.

L’accusa a Trump di dilapidare la credibilità degli Stati Uniti vale fino a un certo punto. Danni peggiori fece Bush con l’invasione dell’Iraq nel 2003, ma anche Obama non è immune da colpe: i tentennamenti sulle Primavere arabe (contro Mubarak, poi a favore di al-Sisi), la “linea rossa” sulle armi chimiche di Assad. Per adesso Trump di concreto non ha fatto proprio nulla. E intanto la sua agitazione minacciosa già gli frutta un piccolo vantaggio interno: il sondaggio Rassmussen lo dà per la prima volta in risalita nei consensi, dal 39% al 45% di giudizi positivi tra gli americani, grazie al piglio duro verso la Corea del Nord.

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