Putin of the East

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Putin d’Oriente

Il tour mediorientale compiuto da Vladimir Putin in Siria, Egitto e Turchia ha colpito la comunità internazionale e i media occidentali che l’hanno descritto come il suo trionfo personale.

Con tale visita Putin ha dimostrato cioè in via definitiva che la Russia è tornata in Medio oriente, da dove era stata cacciata dopo l’intervento americano in Iraq.

La Siria non è diventata l’Afghanistan, come si prefiggevano i suoi avversari. E se quella guerra persa fu uno dei fattori del declino della Russia, la guerra vinta in Siria ne suggella invece il rilancio globale.

Così anche l’alleanza stretta con Egitto e Turchia appare un capolavoro diplomatico dello zar, che ha guadagnato due preziosi partner regionali strappandoli all’Occidente, del quale non si fidavano più.

Il fatto poi che il Cairo sia diventato un attore protagonista della controversia israeliano-palestinese (qui si sono riconciliate le diverse anime politiche e religiose palestinesi), rende l’alleanza con l’Egitto ancora più strategica.

Ma Putin ha dimostrato le sue doti diplomatiche anche ritagliandosi un ruolo super partes che gli consente di interloquire con tutti gli attori mediorientali, compresi i nemici dei suoi alleati.

Il successo del presidente russo, per tanti analisti, discenderebbe da un asserito ritiro degli Stati Uniti dal Medio oriente.

Tesi non nuova: fu esposta con ossessione dalla Clinton durante la campagna elettorale, prospettando un ritorno più assertivo dell’America in Medio oriente.

In realtà gli Stati Uniti non si sono mai ritirati dal Medio oriente, hanno semplicemente cambiato strategia. Non più interventi diretti, ma indiretti.

Così il regime-change siriano, programmato da Washington (e non solo), è stato affidato alla marmaglia jihadista, con il supporto finanziario dei sauditi. Così la Libia, dove il regime-change è invece riuscito.

Ma anche il Terrore: sia il Califfato sia al Qaeda hanno goduto, per osmosi indiretta, delle stesse reti di reclutamento e di finanziamento destinate ai movimenti jihadisti (basti vedere ad esempio come negli attentati compiuti in Europa siano coinvolti puntualmente elementi radicali noti a servizi segreti).

Una contiguità tollerata dall’Occidente, o quantomeno non contrastata veramente, perché in fondo tali movimenti terroristi, pur portando la Paura in Occidente, nel mondo arabo sono stati conflittuali con gli avversari degli Stati Uniti: gli sciiti iracheni che facevano asse con Teheran, Hezbollah, il governo siriano, il Colonnello Gheddafi etc.

Non solo le guerre: anche le primavere arabe, sempre affidate a movimenti islamisti, avrebbero dovuto consegnare agli Stati Uniti un nuovo mondo arabo e mediorientale, tanto che essi le hanno sostenute apertamente.

Questa strategia discendeva dalla dottrina del caos creativo immaginata dai neocon. Una strategia che ha seminato destabilizzazione in tutto il mondo arabo e altrove.

Così dire che l’America si è ritirata dal Medio oriente non è solo miopia, è un falso storico. In questi anni c’è stata, eccome!

Il problema è che la loro strategia si è rivelata perdente. Seminando destabilizzazione, quanti si sono sentiti minacciati hanno trovato in Putin un interlocutore interessato, anzitutto per evitare il dilagare dell’instabilità – e del Terrore – in Russia, peraltro prospettiva reale.

Detto questo, è prematuro parlare di un trionfo di Putin. Certo, ha vinto la guerra, questo il senso della decisione di Putin di ritirare parte del contingente russo inviato in Siria.

Meglio sarebbe scrivere della vittoria di una fase della guerra globale che sta tormentando il mondo da quindici anni (anni di egemonia neocon).

Il presidente russo deve però ancora vincere la pace, una prospettiva ancora impervia, stante il nuovo caos mediorientale seguito all’improvvido annuncio di Trump su Gerusalemme e le spinte per scatenare una guerra di grandi proporzioni nella regione, con l’obiettivo finale di limitare l’influenza iraniana e/o abbattere Teheran.

Val la pena concludere con una notazione che prendiamo da Emanuele Severino, il quale, come riferito in uno scritto riportato tempo fa sul nostro sito (vedi Piccolenote), spiegava come la Guerra Fredda non aveva visto due Imperi contrapposti, bensì un unico Impero che, attraverso la logica dei blocchi, dominava il mondo.

Definizione che collima con quella di Augusto Del Noce, che vedeva Usa e Urss come un mostro a due teste, con il corpo unico e le due teste condannate a insultarsi senza però poter affondare i colpi, pena la morte del mostro stesso.

La fine di quell’Impero avrebbe dovuto coincidere con l’assimilazione dell’Impero d’Oriente a quello d’Occidente, che poi è quanto stava avvenendo con la Russia di Boris Eltsin.

Putin ha risollevato le sorti di tale Impero e si presenta ai sudditi dell’Impero d’Occidente come una figura apportatrice di stabilità e sicurezza. Come un nuovo Costantino in grado di riportare ordine dopo anni di guerra e insicurezza.

Ad oggi l’Impero d’Occidente lo vede come una minaccia, ma è probabile che avesse ragione Trump, che aveva ricercato un partenariato strategico con Mosca.

Aveva cioè intuito, lui o chi per lui, che il presidente russo poteva rappresentare una risorsa per far uscire anche tale parte di mondo dalle secche nelle quali l’hanno cacciata le follie belliciste dei neocon e la vittoria predatoria della Finanza sulla politica.

Proprio perché alla Russia tali calamità sono state evitate grazie a Putin, che invece ha vinto la sua battaglia sugli oligarchi e contrastato con successo l’assertività dei neocon.

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