American Churches Stand and Watch Occupy Wall Street

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Occupy, le Chiese Usa stanno a guardare

Anche l’arcivescovo di Canterbury Rowan Williams, capo della Comunione Anglicana, ha riservato attenzione al movimento di protesta contro i centri di potere finanziario che hanno luogo a Londra. Ben più potente la voce della religione al di là dell’Atlantico, in una «nazione con l’anima di una chiesa» come gli Stati Uniti: la protesta sgomberata da Zuccotti Park a New York non poteva che trovare rifugio in una chiesa, Trinity Church.

A inizio Novecento il social gospel delle chiese alle prese con la questione sociale amplificata dall’immigrazione gettò le basi morali (e in alcuni casi anche legislative) per quello che divenne il New Deal di Roosevelt.

Nell’America di oggi la posizione delle chiese americane è indicativa del ruolo della protesta denominata “Occupy Wall Street”. Ogni fenomeno sociale e politico in America ha un risvolto religioso.

Nell’America della recessione e della crescente ingiustizia sociale tra classi, la partecipazione delle chiese e delle religioni al movimento di protesta è più sottotraccia e meno istituzionale di un secolo fa. Non solo a New York, tra i manifestanti vi sono preti e religiosi, fedeli cristiani, ebrei, musulmani, hindu, e sikh; ci sono spazi per la preghiera e la meditazione; si tengono celebrazioni interreligiose ed ecumeniche, senza fare di “Occupy Wall Street” un movimento caratterizzato da un messaggio direttamente religioso.

Ma per ora i leader delle chiese si tengono alla larga da un movimento acefalo e quindi politicamente rischioso, per la presenza di elementi vari e incontrollabili.

Le assenze sono significative come le presenze. Nell’assemblea plenaria dei vescovi cattolici tenutasi a Baltimora questa settimana nessun accenno, durante i lavori e nei documenti pubblicati, è stato fatto alla crisi economica e ai suoi risvolti sociali e pastorali. Ben diverso l’atteggiamento tenuto di fronte a “Occupy Wall Street” dall’intellettualità e dai teologi.

Battitori liberi come Peter Berger e Thomas Reese hanno parlato di una chiesa cattolica che sta necessariamente, alla luce della sua dottrina sociale, dalla parte degli occupanti. Ma anche pubblicazioni che sono espressione di una tradizione intellettuale consolidata hanno preso chiaramente posizione.

L’editoriale del settimanale dei gesuiti America Magazine, intitolato “For the 99 Percent”, traccia un parallelo tra le proteste in corso in America e il documento pubblicato solo pochi giorni fa dal Pontificio consiglio Iustitia et Pax in favore di una riforma della governance del sistema finanziario globale. L’editoriale di Commonweal, intitolato “Justice and Economics”, vede tra i due eventi ben più di una coincidenza temporale, e ricorda come tre anni fa Dennis C. Blair, direttore della sicurezza nazionale del presidente Barack Obama, avesse indicato nella crisi finanziaria globale uno dei maggiori rischi alla sicurezza, anche interna, degli Stati Uniti.

Intellettuali, preti e religiosi americani sono molto più presenti e attenti a quanto accade nei vari luoghi di occupazione di quanto non lo siano i vescovi. Il paradosso è che una chiesa cattolica sempre più attenta a non farsi “assimilare” dalla cultura americana si è adattata a una cultura economica liberista, che ha molto più a che fare col calvinismo dei fondatori che con la tradizione della dottrina sociale della chiesa cattolica.

In questo senso si comprende bene come mai il cattolicesimo neo-conservatore americano abbia spinto per una sconfessione del cardinale Turkson e del documento di “Iustitia et Pax” da lui firmato.

A parole il “prosperity gospel” è ancora appannaggio solo delle chiese non cattoliche; nei fatti, la chiesa cattolica si è concentrata sulle questioni della bioetica, dell’aborto e del matrimonio tradizionale, abbandonando la questione sociale proprio nel momento più critico dalla Seconda guerra mondiale in poi. Sono lontani gli anni ottanta, in cui i documenti dei vescovi cattolici americani sulla giustizia sociale ed economica erano un faro morale non solo per i vescovi di tutto il mondo, ma anche per i non cattolici americani.

I religiosi e fedeli – di varie fedi, uomini e donne, ordinati e non – che portano la voce di Dio a coloro che in questi giorni invocano un mondo meno diseguale e meno ingiusto, sembrano ricordare meglio dei vescovi una delle scene più potenti del film Fronte del Porto di Elia Kazan (1954) – la scena in cui il prete, magnificamente interpretato da Karl Malden, gridava a quelli che gli intimavano di tornare in sacrestia e di non occuparsi dei diritti dei lavoratori portuali: «Boys, this is my church – Questa è la mia chiesa. Non avete capito che Cristo è qui con i portuali».

Massimo Faggioli

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