Ma Trump e Putin saranno costretti a collaborare
Il raid statunitense ha spostato l’attenzione sul regime siriano. Sorge il sospetto di un inconfessato progetto su cui convergono tutti i player principali: ridimensionare Assad. Sperando che le idee sulla (inevitabile) partizione della Siria siano chiare, e che il futuro del Paese non sia una tragica avventura come il “dopo” Saddam e il “dopo” Gheddafi
A dispetto delle parole, Donald Trump e Vladimir Putin saranno costretti, e per paradosso d’ora in avanti ancora di più, a collaborare sulla Siria. Lo zar del Cremlino “deplora” l’attacco contro “uno Stato sovrano” di cui è alleato.
Chiede la convocazione del Consiglio di sicurezza per “stigmatizzare” il raid americano contro la base da cui sono partiti gli aerei che avrebbero lanciato bombe chimiche causando una strage (il condizionale è d’obbligo, il regime nega e non c’è stata un’inchiesta indipendente ad avvalorare la tesi).
Quale che sia la verità, è superata dagli eventi. E la domanda vera è cosa succederà dello sventurato Paese entrato nel settimo anno di guerra. A suo tempo, Donald Trump aveva applaudito l’Obama riluttante che, dopo aver tracciato una “linea rossa” abbondantemente superata da Bashar Assad, aveva comunque deciso di non attaccare Damasco.
Aveva anche, il miliardario presidente, avvertito che il vero nemico è lo Stato islamico e non il regime alauita. Perché questa capriola spettacolare? Ci ha abituato, in pochi mesi, a cambi d’opinione repentini. Stavolta però la giravolta è devastante perché di mezzo c’è l’uso delle armi nell’area più calda del mondo.
La lettura più semplice e più in voga è che, in un soprassalto morale di difesa dei valori dell’Occidente, sia stato così scosso delle immagini dei bambini uccisi da decidere sui due piedi l’azione. Senza consultare il Congresso (non è obbligato). Avvertendo alla ventitreesima ora gli europei e i russi. Trump il decisionista. Trump il cowboy che aveva promesso il disimpegno, la chiusura isolazionista, e si fa invece dalla sera alla mattina re della giungla. A costo di inimicarsi Mosca e aprire un duello come ai vecchi tempi tra grandi potenze.
Lineare. Ma forse le cose sono più complesse. Nelle ultime fasi del mandato Obama e nelle prime della nuova era, l’America aveva in qualche modo abbandonato il campo, come volesse disinteressarsi del Medioriente dopo aver raggiunto l’autosufficienza energetica e giudicando la regione non più nel suo interesse strategico.
Due supplenti si erano incaricati del ruolo di giocatori principali dopo aver stretto un’alleanza inedita e sorprendente. Putin naturalmente e il sultano di Istanbul Recep Tayyip Erdogan. Il primo perché la Siria gli è sempre stata indispensabile in Medioriente. Il secondo perché preoccupato delle conquiste sul terreno a discapito dello Stato islamico, e per la conseguente buona reputazione acquisita dai curdi siriani, suoi acerrimi nemici. Stare al tavolo gli era dunque indispensabile nonostante dovesse inghiottire il boccone amaro di riaccreditare quel Bashar Assad che voleva da tempo deporre.
Ma non si lascia facilmente quel riflesso imperiale che deve sedurre quasi tutti coloro che siedono alla Casa Bianca. E il primo passo di un cambio di strategia è stato l’invio, con gli scarponi sul terreno, di marines incaricati di accompagnare l’offensiva su Raqqa, la “capitale” del califfo Abu Bakr al Baghdadi, per distruggere definitivamente l’Isis.
Una mossa sorprendente visti i proclami precedenti, però nel solco di quella che sembrava una linea condivisa: proclamare i jihdisti il peggior incubo, concentrarsi su di loro, e solo in seguito occuparsi del futuro della Siria.
Il raid invece indebolisce oggettivamente Assad, sposta sul regime l’attenzione, lascia almeno per un po’ il califfo fuori dal cono di luce dell’interesse internazionale. Erdogan è stato il primo a puntare l’indice contro Assad per il massacro coi gas, dichiarazione che è suonata stonata non perché non lo pensi (lo pensa da sempre), ma perché il nuovo asse con Putin doveva sconsigliargli la sortita. Lo stesso Putin ha avuto le reazioni di prammatica che ci poteva attendere, quasi un atto dovuto e nulla di più. Sino a far insorgere il sospetto di un inconfessato progetto su cui convergono tutti i player principali. Ridimensionare Assad, tornato in sella dopo essere stato sull’orlo del precipizio col Paese occupato per oltre la metà, era un obiettivo turco, anche americano, forse persino russo, alla fine, se l’area sarà ridisegnata dovendo ormai tenere necessariamente conto, comunque, della sua influenza. Chiunque regni a Damasco.
Se poi l’America vuole sedersi al tavolo, in questa nuova e condivisa spartizione di poteri, tanto meglio (da notare la totale e sconcertante assenza dell’Europa sempre più vassalla).
Che l’ipotesi sia l’una o l’altra (raid deciso contro la Russia o raid deciso con la non ostilità della Russia) poco cambia. Trump e Putin sono destinati non solo a parlarsi ma a immaginare insieme scenari per il “dopo” una guerra durata troppo a lungo persino per i canoni mediorientali.
Avendo ben presente che lo Stato islamico sta sempre al primo posto nella lista delle minacce (Putin ne ha misurato la pericolosità anche recentemente a San Pietroburgo); che sulla (inevitabile) partizione della Siria bisognerà trovare un compromesso; così come sul destino futuro del dittatore di Damasco. Sperando che per quel “dopo” abbiano le idee chiare. Non sia un’avventura come il “dopo” Saddam e il “dopo” Gheddafi.
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