Perché ora Trump riconosce le intrusioni russe
Donald Trump è rientrato da un summit da dimenticare con Vladimir Putin. Ma l’amnesia non sarà facile, questa volta, per il presidente americano, nonostante la vocazione a sovvertire regole e aspettative di diplomazia e politica. Trump, è il giudizio collettivo che risuona dai banchi dell’opposizione ma anche tra diversi repubblicani, ha passato il segno. È stato nettamente surclassato dal leader di una potenza ostile. È parso impreparato e debole.
Tanto da essere costretto, appena atterrato in patria, a correre ai ripari e a invertire la rotta. Incontrando in serata i giornalisti nello Studio Ovale, Trump ha ribadito la fiducia nelle agenzie americane di intelligence. E ha detto di essersi espresso male, a Helsinki, a proposito delle presunte interferenze russe nelle elezioni del 2016. Ora accetta le loro conclusioni: la Russia ha sì interferito nel voto, ma senza avere avuto impatto sull’esito. La Casa Bianca farà di tutto per proteggere il prossimo voto di novembre.
Tra le critiche, la sferzata più dura è forse spettata all’ex presidente democratico Barack Obama, dal Sudafrica: è uscito allo scoperto da un auto-imposto esilio politico con un discorso in difesa della democrazia e contro la “strongman politics”, degli uomini forti, dei leader autoritari che sposano la politica delle menzogne, della paura, del rancore.
La polemica era scoppiata sull’accettazione supina dei dinieghi di Putin alle intrusioni elettorali, come sull’incapacità di affrontare nodi irrisolti dall’Ucraina alla Siria al disarmo. Realtà che hanno strappato il velo di un incontro definito da Trump «molto produttivo». Che si è semmai caricata di simboli ancor più inquietanti con il passare delle ore: il New York Times ha evidenziato quel pallone dei Mondiali consegnato da Putin a Trump con un messaggio sibillino. La palla è nel tuo campo, rinfacciandogli un’espressione cara ai collaboratori della Casa Bianca che sostenevano fosse invece Mosca a dover dar prova di umiltà e cooperazione.
Se però il vertice con Putin è stato generalmente considerato un fiasco, più azzardato è ipotizzarne le vere conseguenze. La politica estera di America First rimane un enigma aggravato dagli umori personali di un presidente che teme ovunque cospirazioni per delegittimarlo. Che alterna aggressioni, politiche e commerciali, a Paesi amici, ad abboccamenti con leader ostici e ostili del calibro di Putin e Kim Jong-un. Un enigma che potrebbe erodere la fiducia transatlantica e seminare confusione.
Appare però arduo, data la presa interna di Trump, anche scommettere sulla posizione dei suoi collaboratori e di notabili repubblicani per cercare di contenere legislativamente azioni e dichiarazioni del presidente, o di far pesare le critiche al di là di momentanee dissociazioni. Dimissioni eccellenti nell’amministrazione, all’ombra del drammatico vertice, non sono avvenute. E a pochi mesi dalle elezioni di metà mandato a novembre, i parlamentari fanno i conti con un presidente che grazie al suo populismo resta popolare tra i ranghi di militanti ed elettori fidati, con un gradimento superiore al 90%. E con buona pace per i destini della leadership americana e del mondo.
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