La battaglia
dei delegati
di VITTORIO ZUCCONI
BRUCIATE le speranze e consumati i sogni dell’uomo nuovo della politica americana nella notte della sua doppia sconfitta nei grandi stati del Texas e dell’Ohio, la resurrezione della senatrice Clinton riporta la lotta nel partito Democratico americano alla spietata e astrusa realtà dei numeri e del sistema elettorale.
Come già il mondo intero scoprì sbigottito nel tragicomico novembre del 2000, quando George Bush fu elevato alla Presidenza senza avere una maggioranza di voti popolare e tutto si ridusse a 537 voti in Florida e a una sentenza della Corte Suprema, non sempre basta vincere per vincere e non sempre basta perdere per perdere.
L’oggetto delle elezioni primarie, quelle che devono determinare la persona che contenderà la Casa Bianca alle elezioni generali del 4 novembre prossimo, non è di prendere più voti popolari in assoluto dell’avversario, ma di tradurre i voti in delegazioni, in rappresentanti di lista che parteciperanno poi al Congresso finale del partito, potendo – ma non necessariamente dovendo – nominare il proprio campione. I delegati sono scelti a nome e per conto dei candidati, ma possono cambiare voto al congresso, come spesso è accaduto.
E qui, in questa serie di passaggi e di strette, la corsa fra Barack Obama e Hillary Clinton si avvita in un gorgo di ipotesi e di variabili che spiegano perché oggi, per la prima volta, la Clinton abbia ipotizzato la possibilità di agganciare Obama come proprio coequipier nel ticket finale. Non certo per amore o entusiasmo, ma perché il duello fra i due sta dilaniando il partito e rischia di riconsegnare la Presidenza di nuovo a un partito repubblicano che, dopo Bush, sembrava meritatamente, fra la guerra e il collasso della economia, destinato a perderla.
Per essere “nominati”, per essere scelti come candidato alla Casa Bianca è necessario avere la maggioranza dei delegati alla “Covention”, al congresso che si terrà a Denver, nel Colorado, alla fine di agosto. Ne occorrono 2025, la maggioranza assoluta e finora, in attesa che vengano contati anche quelli del Texas ancora non assegnati, Obama ne ha 1340 e Hillary 1206, anche se i calcoli fluttuano. Rimangono in palio 657 delegati e dunque nessuno dei due ha più la possibilità di conquistare, vincendo le primarie che mancano, i 2025 con il voto popolare.
Dunque, per arrivare alla cifra fatidica, essi dovranno contare sul voto dei “superdelegati”, 796 pezzi grossi, parlamentari, celebrità, ex candidati trombati, soloni assortiti, finanziatori benemeriti, un’armata di mandarini eletti da nessuno, ma scelti dalla dirigenza democratica. Saranno loro, scegliendo per convenienza, per interesse, per opportunismo quelli che produrranno un candidato, Hillary od Obama, che non è riuscito a farlo attraverso i voti popolari.
E qui sta il nodo velenoso che i Democratici dovranno sciogliere senza restarne intossicati. Perché se questi bonzi di partito dovessero schierarsi con chi dei due ha preso meno voti (finora Obama ha conquistato quasi 800 mila preferenze più di Hillary) sarebbe la vittoria dell’apparato sui cittadini, la più sfacciata contraddizione del vantato principio di democrazia. Ma se, arrivati al 7 giugno quando si terranno le ultime primarie a Puerto Rico, Hillary avesse continuato nella sua serie di vittorie, se avesse conquistato anche il boccone più grosso rimasto, la Pennsylvania, dove si vota martedì, pur restando alle spalle di Obama nei delegati, gli “apparatchnik” del partito potrebbero giustamente notare che lei ha vinto tutti gli Stati importanti, Texas, New York, Ohio, Pennsylvania, California, Massachussetts, e se la matematica premia ancora Obama, il calcolo politico, quello che alla fine conta, direbbe Hillary.
Mancano ancora 12 Stati all’appello finale e il meccanismo proporzionale dell’assegnazione dei delegati di fatto garantisce che Hillary non possa rimontare lo svantaggio aritmetico anche vincendoli tutti, dal Kentucky alla Pennsylvania, dalla West Virginia alla Carolina del Nord al Mississippi. Alla Convention di fine agosto, se Obama, oggi in evidente crisi dopo avere volato in alto, forse troppo in alto, non dovesse improvvisamente ritirarsi, si arriverebbe dunque con una Hillary ancora in minoranza, ma con le vele gonfiate dal successo, e con un Obama ancora in maggioranza, ma con le gomme a terra.
Lasciando ai “bonzi” di un partito che ancora la ditta “Clinton & Clinton” controlla più del senatore afroamericano, il compito amarissimo di decidere d’ufficio, dunque non democraticamente, chi li dovrà rappresentare contro McCain in novembre.
Dunque, per avere voluto creare un marchingegno elettorale perfettamente proporzionale, ma aggiungendo il correttivo dei “superdelegati” per limitare i danni di eventuali campioni demagogici o ineleggibili, i Democratici si trovano in un pantano che somiglia alle sabbie mobili.
Il successo inaspettato e imprevisto del quarantenne “sognatore” Obama ha distrutto il castello di carte fatto pensando alla sicura marcia trionfale dei Clinton e ora le carte stanno sparpagliate sul tavolo, davanti a un elettorato che si era mobilitato per “l’uomo della speranza” e potrebbe disertare le urne in novembre se si sentisse disappropriato del proprio entusiasmo. Per questo si comincia a parlare, con i toni della disperazione e non certo per scelta, di una possibile accoppiata fra i due. Sempre che uno dei due sia disposto a stare sotto e rinunci a stare sopra. E a sopportare il convitato di pietra che graverà su una presidenza o su una vicepresidenza Clinton. Cioè Clinton.
(6 marzo 2008)
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