Iraq, a Chronically Unfinished Endeavor

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Iraq, un�impresa cronicamente incompiuta

Gerardo Morina

Quando il 20 marzo 2003 le bombe americane, come aveva annunciato la CNN commentando le riprese televisive della Prima Guerra del Golfo, illuminarono nuovamente il cielo di Baghdad, tutto avrebbe dovuto risolversi a un mese dall�attacco. Invece, cinque anni dopo, ci ritroviamo a parlare dell�Iraq come di un�impresa cronicamente incompiuta. Una guerra che, secondo le intenzioni dell�amministrazione Bush, avrebbe dovuto mostrarsi decisiva, senza ripensamenti e dubbi di sorta. Per cinque anni, e chiss� per quanti altri ancora sar� cos�, l�Iraq ha invece diviso le coscienze, nella stessa America (dove ha creato divergenze non solo nell�opinione pubblica, ma anche tra Dipartimento di Stato e Ministero della Difesa), cos� come in Europa e nell�intero Occidente. � stata una guerra costosa, in termini di mezzi ma anche di vittime. Sarebbe ingiusto dire che tutto, proprio tutto, � andato male. Senza l�occupazione americana dell�Iraq, il Paese non avrebbe conosciuto quella libert� dalla dittatura (di stampa, di istituzioni) che gli era stata negata sotto il regime di Saddam Hussein. Si vorrebbe dire che non � poco, se non fosse per il fatto che gli errori commessi superano per� i fini raggiunti. Gli esperti dicono che � stata, almeno per i primi quattro anni, una guerra combattuta male. Male perch�, sostanzialmente, non ha centrato i suoi obiettivi. Di questi, uno � fallito in partenza, dopo che si � scoperto che l�Iraq non possedeva armi di distruzione di massa. Se � vero che Saddam Hussein � stato defenestrato e poi condannato e giustiziato dal suo popolo, � altrettanto vero che il Dopoguerra si � dimostrato in gran parte un disastro, con il risultato che col tempo la presenza militare USA in Iraq ha contribuito a destabilizzare la regione, rendendo precario anche quel Pakistan una volta considerato un forte caposaldo e facendo aumentare l�influenza dell�Iran sulla zona. Ma il principale obiettivo mancato � la vera pacificazione dell�Iraq perch� dopo cinque anni lo Stato resta debole e le forze armate e di polizia appaiono ancora divise tra le varie fazioni in lotta per la conquista del potere. In Iraq hanno luogo contemporaneamente diverse guerre. Non solo quella degli insorti contro gli Stati Uniti, ma soprattutto quelle tra sciiti e sunniti e fra le fazioni sciite al loro interno. E intanto, come se non bastasse, il mostro di Al Qaida ha pericolosamente fatto penetrare i suoi tentacoli.

Ma se la guerra in Iraq ha mostrato i limiti della potenza americana, ha parallelamente evidenziato, almeno nell�ultimo anno, un�innegabile prontezza di riflessi di Washington nel tentare di correggere la rotta. Il cosiddetto �surge� di uomini e di mezzi, instaurato dal gennaio 2007 dal generale Petraeus, viene riconosciuto dall�autorevole Istituto Internazionale di Studi Strategici di Londra (si veda il rapporto 2008 sotto la voce �Military Balance�) come un successo tattico di non trascurabile importanza. Le forze americane e irachene sono andate all�offensiva, impedendo che le forze nemiche assumessero il controllo del territorio. �Anche se il grado di violenza rimane alto� � scrive il Rapporto � �nello spazio di un anno il �urge� ha sostanzialmente ridotto il numero degli omicidi e degli attacchi terroristici�. Tuttavia, conclude il documento, alla decisione militare non si accompagnano progressi sul piano politico e molta strada rimane da compiere, mentre il futuro immediato � colmo di interrogativi. Perch� nessuno dei candidati presidenziali ha la ricetta miracolosa in mano. Hillary Clinton e Barack Obama (non il repubblicano McCain) predicano il ritiro. Ma chiunque occuper� la Casa Bianca dal 2009 in poi dovr� mettere da parte ogni tentazione populista e far fronte alla realt� dei fatti, che dice che se gli Stati Uniti se ne vanno dall�Iraq, ci� renderebbe � nel breve, medio e lungo periodo � la guerra civile ancora pi� accesa. Che alla presidenza vada Obama, Hillary Clinton o McCain, tutti si troveranno dunque di fronte allo stesso dilemma: accetterebbero come presidenti di assumersi la responsabilit� di un inevitabile bagno di sangue, una volta che si decida il ritiro delle truppe? Lo scenario pi� realistico � che occorrer� valutare e soppesare il costo di rimanere in Iraq e l�incognita di uscirne. Se il livello di violenza sul terreno si misurer� in termini contenibili, il prossimo presidente degli Stati Uniti � probabile che non penser� a sostanziali cambiamenti. Se, d�altro canto, la situazione dovesse peggiorare in termini di vite umane e di cerneficine, allora � altrettanto probabile che il popolo americano tender� a forzare la mano della Casa Bianca, insistendo perch� si metta la parola fine ad una situazione sempre pi� inaccettabile.Una soluzione comunque non facile. Perch� l�America, in fondo, si trova prigioniera del problema che ha creato.

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