American Hegemony

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Invece di gestire le crisi, gli Usa hanno mirato a risolverle con la guerra. Chiunque vinca le elezioni ha il compito di ricreare stabilità nel ‘Nuovo Medio Oriente’

Nel 2003 la politica degli Stati Uniti verso il Medio Oriente ha segnato una brusca svolta rispetto ai decenni precedenti. Prima dell’invasione dell’Iraq tendeva al contenimento e alla gestione delle crisi e al negoziato con i regimi esistenti. Ma in seguito, anziché ricercare un equilibrio di forze, ha mirato a imporre un’egemonia americana, passando dal contenimento al confronto, dalla gestione delle crisi alla loro risoluzione attraverso la guerra.

Washington ha inoltre manifestato una propensione a modificare i regimi esistenti invece che a trattare con essi, cercando di rovesciarli in modo violento, come nel caso dell’Iraq, o minacciando il ricorso alla forza, come in quello dell’Iran e della Siria, mentre nei confronti dei paesi amici, quali l’Egitto, l’Arabia Saudita e la Giordania, ha perseguito questo obiettivo tentando di favorire un rapido processo di democratizzazione.

Il ‘Nuovo Medio Oriente’ doveva diventare un’area d’influenza americana con governi filo-occidentali liberamente eletti: un’aspettativa basata sulle esperienze positive in Europa occidentale e in Estremo Oriente dopo la Seconda guerra mondiale e in Europa centrale e orientale dopo il crollo dell’Unione Sovietica.

Ma nel Medio Oriente le cose non sono andate come previsto. L’Iraq, che doveva diventare uno Stato democratico, prospero e riconoscente, è sprofondato nei conflitti e nella violenza. L’Iran, che avrebbe dovuto abbassare la testa dopo l’invasione dell’Iraq, è al contrario imbaldanzito, assumendo un atteggiamento di sfida. Le elezioni, che avrebbero dovuto portare al potere nuove classi dirigenti filo-occidentali, hanno favorito gli estremisti islamici anti-americani, specialmente in Palestina, ma anche in Egitto e Giordania.

Il terrorismo, che doveva acquietarsi dopo l’intervento degli Stati Uniti in Afghanistan e in Iraq, si è invece sviluppato

, trovando nuovi sbocchi in quest’ultimo paese e in Pakistan. Il tentativo americano di fondare un ‘Nuovo Medio Oriente’ è parso soltanto ricreare lo stato di cose antecedente, ma con una nuova serie di problemi: un Iraq al collasso, un Iran ancor più battagliero, tensioni religiose fra sunniti e sciiti e una costante espansione delle attività terroristiche in nome della guerra santa.

Qualsiasi nuovo governo a Washington dovrà cercare di ricreare una stabilità. Ma questo significa rinunciare ai tentativi di modificare i regimi esistenti e collaborare invece con i governi in carica per ristabilire buoni rapporti duraturi. E in particolare, irrobustire rapidamente lo Stato iracheno e le sue forze di sicurezza, come pure i paesi arabi del Golfo e la loro capacità di controbilanciare la potenza iraniana. Più specificamente, ciò significa concentrare l’attenzione sui conflitti principali della regione e cercare seriamente di risolverli.

Nel caso di quello fra israeliani e palestinesi, il primo obiettivo è bloccare gli insediamenti ebraici in Cisgiordania e abbandonare la politica senza sbocco dell’isolamento di Hamas, che resta uno dei principali rappresentanti del popolo palestinese.

Per quanto riguarda i rapporti fra il Libano e la Siria, è necessario adottare un atteggiamento fermo verso quest’ultimo paese, ma anche riavviare il negoziato per la restituzione delle Alture del Golan come carta fondamentale da giocare per una riconciliazione fra Gerusalemme e Damasco.

Infine, nel caso del contenzioso fra Baghdad e Teheran, va mantenuto l’impegno a garantire la sicurezza dell’Iraq e a favorirne lo sviluppo, ma anche a ricercare un compromesso con l’Iran che lo induca ad abbandonare il suo programma nucleare in cambio della rinuncia, da parte di Washington, a sostenere la ribellione interna e a perseguire l’obiettivo di un cambiamento di regime, riconoscendogli un ruolo nel processo di riassestamento del Medio Oriente che contribuisca a risolvere i problemi, anziché a crearli.

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