The Sheik’s Hands Are on New York’s Last Icon

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WASHINGTON – Lievemente più costosa dei 24 dollari che gli olandesi pagarono agli indiani Lenape per comperarla 400 anni or sono, l’isola di Manhattan torna a esporre il cartello “vendesi” alle finestre dei propri pezzi più pregiati, come il massimo monumento all’architettura Art Deco anni Venti, il Chrysler Building. Ma questa volta sono gli arabi del Golfo a comperarsela, e gli uomini bianchi a dover vendere, per recuperare quei dollari che versano a barili nella casse degli emiri e degli sceicchi.

La notizia che il più alto grattacielo del mondo costruito in mattoni, il totem che la Chrysler eresse alla propria gloria fra il 1925 e il 1930, sarà comperato al 75% dall’emiro di Abu Dhabi attraverso una società di investimenti, colpisce per la simbolica preminenza di un palazzo che da quasi 80 anni segna come nessun altro la zona centrale di Manhattan, Midtown, ed è la calamita inevitabile di ogni visitatore di New York. La sua posizione, la sua guglia a scaglie e raggi di alluminio luminoso nel tramonto, hanno raccontato per le generazioni della Depressione, poi della Guerra fino allo stupro delle Due Torri sette anni or sono, la storia della primazia globale e dell’orgoglio degli Stati Uniti e di Manhattan.

Ma i dollari contano più della nostalgia e della gloria, e i soldi oggi vengono da oltre mare, est od ovest. La Chrysler, salvata sul letto di morte da Lee Iacocca con un prestito ponte esteso da Reagan negli anni ’80, ma oggi abbandonata anche dalla Daimler Benz dopo un disastroso matrimonio tedesco-americano, è, come le altre case automobilistiche di Detroit, in pieno mar rosso di debiti. Sul grattacielo che porta il suo nome ma che da tempo non era più suo, è appeso lo stesso cartello che penzola davanti a una casa americana su 350: “for sale”, in vendita. Anzi, in svendita, perché gli 800 milioni di dollari pagati da Abu Dhabi per i due terzi del palazzo sono un affare.

Nel secolo XXI, quello che le allucinazioni disastrose dei personaggi come Paul Wolfowitz, l’ideologo della guerra in Iraq nel 2003, e i suoi apostoli della “guerra preventiva” neo-con avevano promesso come il “nuovo secolo americano”, sta diventando il secolo dei saldi. I petrodollari arabi sono già dovuti arrivare, all’inizio del inverno, per evitare il naufragio e l’insolvenza alla Citibank, sulla carta la più grande banca del mondo, e fare trasfusioni di miliardi nelle vene di auguste società finanziarie e case di borse e banche d’investimento come la Morgan Stanley, la Lehman Brothers e la Goldman Sachs, dopo il fallimento della Bear Sterns. Mentre la Banca centrale cinese continuava a raccogliere montagne di “carta”, di buoni del tesoro o obbligazioni americane per tenere a galla i consumi.

Ora arriva il momento dei saldi immobiliari. Il Chrysler Building entra nel portafoglio dell’emiro Khalifa bin Zayed al Nahyan attraverso gruppi euroamericani dei quali lui è il finanziatore. Nei mesi scorsi, erano già stati venduti il palazzo della General Motors e altri tre edifici di Manhattan per 3 miliardi e 950 milioni, dunque un miliardo l’uno, che sembra essere il prezzo corrente per acquistare grattacieli a New York. Già venduto il palazzo della compagnia assicuratrice e finanziaria Equity a consorzi di kuwaitiani, sauditi e investitori del Qatar avvoltolati in gomitoli di società che si prestano fondi e si vendono proprietà per cercare di restare tutte a galla sopra la marea nera del petrolio.

Non è neppure una novità questo saldo di fine stagione che periodicamente Manhattan organizza nei momenti di crisi finanziaria e di recessione di fatto. Negli anni dello yen onnipotente, come oggi l’euro, i giapponesi della Mitsubishi si fecero abbindolare dai Rockefeller e comperarono per due miliardi e mezzo di dollari nel 1986 una quota di maggioranza in un altro immobile leggendario, il Rockefeller Center, e poco dopo cominciarono a cercare di scaricarlo. La “farfalla di Manila”, Imelda Marcos, quando si stancò di comperare le sue 5 mila paia di scarpe e 900 borsette, spese 150 milioni di dollari per due palazzi di seconda categoria a New York, la vecchia sede del giornale New York Herald e il Crown Building, ma recalcitrò davanti alla proposta di acquistare l’Empire State Building, rimasto oggi il più alto dell’isola. “Per non esagerare”, disse. Lo acquistarono insieme Donald Trump e il giapponese Hidei Yokoi, rivendendolo nel 2002 al superimmobiliarista americano Malkin. Resta, con i suoi 102 piani, l’ultimo totem di Manhattan ancora di proprietà Usa.

Ma è lo sbarco in massa degli arabi del Golfo decisi a sparecchiare proprietà simbolo come il Chrysler Building con i soldi degli stessi americani la novità che ancora pochi anni addietro, nel pieno del furore post 9/11, avrebbe dovuto sollevare le reazioni dei media che si scandalizzarono quando Bush tentò di appaltare i porti di New York a una società di Dubai. Nel 2005, quando l’accordo fu concluso e poi cancellato tra le grida per la cessione ad arabi del nodo nevralgico dei commerci, Wall Street viaggiava ad alta quota, il mercato immobiliare era arroventato, banche e finanziarie pescavano nell’oceano di liquidità. E 70 milioni di dollari per un appartamento sulla Quinta di fronte al Metropolitan sembravano ragionevoli.

Nell’America dell’estate 2008, dopo il salasso degli ormai quasi 1000 miliardi nella guerra senza fine, la case automobilistiche costrette a offrire buoni benzina a prezzo fisso per due anni a chi le libera dall’invenduto e il carburante al doppio dello scorso anno, i dollari arabi vanno benissimo per andare avanti. Gli indiani Lenape siamo noi e i nuovi colonizzatori non parlano olandese, ma arabo.

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