Borges Blues in Manhattan

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Vargas Llosa: «La letteratura

latina ora nasce qui»

MARIO VARGAS LLOSA

NEW YORK

Anche se con l’attuale sindaco Bloomberg è meno pulita rispetto a quando governava Giuliani, New York continua a essere una città piena di fascino, la Babilonia del XXI secolo, una moderna Torre di Babele, la capitale del mondo d’oggi. Sono stato qui, a Manhattan, in parecchie occasioni, ma quasi sempre per pochi giorni, il tempo di partecipare a qualche congresso o tenere qualche conferenza. Questa è la prima volta, dopo circa trent’anni, in cui mi sono fermato un paio di mesi, tempo sufficiente per tastare il polso alla città, viverla, scoprirla. In termini strettamente numerici e statistici, New York è piccola e, comunque, proprio come l’Aleph di Borges, tutto contiene e tutto l’attraversa, i paesi, le razze, le religioni, le lingue e ogni cosa si integra rapidamente in essa perdendo la propria connotazione «straniera» per assumerne una nuova: la newyorkese.

E’ la città di tutti e di nessuno, una città che non ha una propria identità perché le riunisce tutte. Il mondo ispanico – o latino, come lo definiscono qui – è onnipresente nelle sue strade, nei bar, nei grandi magazzini, nei ristoranti, e, dopo l’inglese, lo spagnolo è l’idioma più parlato in tutte le sue varianti latino-americane e in quella locale, lo «spanglish», che incomincia a dar vita a una vera e propria letteratura. A questo si deve, indubbiamente, che istituzioni come il Teatro Spagnolo o l’Istituto Cervantes giochino un ruolo così vivace nella vita culturale newyorkese. Mi è capitato di assistere a uno stupendo adattamento teatrale di «Donna Flor e i suoi due mariti» del brasiliano Jorge Amado e il Cervantes ha collaborato in modo importante con il Centro del Pen International per il congresso che, ad aprile, ha richiamato a New York parecchie centinaia di scrittori da tutto il mondo. Uno dei luoghi comuni più consunti, quello di considerare New York come la città degli affari e dell’incultura, sfuma nel nulla se solo si dà una semplice occhiata al Time Out o si scorrono i supplementi culturali pubblicati ogni settimana dal New York Times.

La verità è che, quanto a offerta culturale, non esiste al mondo una città come la Grande Mela, in grado di proporre tante possibilità in ogni campo e settore dell’arte. Pittura, scultura, musica classica e moderna, danza, teatro, opera lirica, cinema, letteratura, laboratori, conferenze, musei, scuole d’arte, accademie costituiscono la vertiginosa dimensione della vita della città che nessuno è in grado di abbracciare interamente: al più, e dedicandovi un sacco di tempo, può scoprirne la punta come per un iceberg. Per chi, come me, ama lavorare nelle biblioteche, la Public Library di New York è un piccolo paradiso. Situato nella Quinta Strada, tra la quarantunesima e la quarantaduesima, quest’immenso edificio risalente al XIX secolo con solide colonne, scaloni in marmo ed enormi, altissime sale di lettura stupendamente illuminate, poggia su una vera e propria città sotterranea di parecchi piani dove vivono i suoi milioni di libri, catalogati elettronicamente e sistemati in stanze con aria condizionata che li difendono dal caldo, dagli insetti e dall’umidità.

E’ una delle più ricche degli Stati Uniti, dopo la Biblioteca del Congresso e quella di Harvard, e una delle più funzionali in cui mi sia capitato di lavorare. Tra i suoi tesori, la Collezione Ber, dono di due fratelli medici, ebrei di origine ungherese, grazie ai quali questa istituzione può vantare, con altre meraviglie, la prima edizione del Don Chisciotte, manoscritti di Dickens, di Henry James, di Whitman, praticamente tutti i diari e i romanzi di Virginia Woolf e il testo dattiloscritto di «La terra desolata» di Eliot con i commenti e le correzioni vergate a mano da Ezra Pound. È, anche, la biblioteca più rumorosa del mondo perché i turisti invadono le sale di lettura scattando fotografie e parlando ad alta voce con sfacciataggine assoluta. Ma, alla fine, ci si abitua a questo chiacchiericcio, come se fosse una musica di sottofondo.

Nonostante possa contare su personale specializzato, la Public Library, come tutte le istituzioni culturali degli Stati Uniti, funziona grazie all’apporto di volontari, in genere pensionati e soprattutto donne, che danno informazioni e aiutano gli utenti a orientarsi nel labirinto degli scaffali. Io mi sento prendere dalla commozione davanti a queste signore, alcune molto anziane, che stanno lì, sempre disponibili e sorridenti, a prestare il loro servizio pubblico. Il volontariato civile è un’istituzione anglosassone e senza di essa né l’Inghilterra né gli Stati Uniti sarebbero quel che sono. La ricchissima vita culturale di New York non esisterebbe se non ci fosse il contributo della società civile che è, poi, quella che, in gran parte, la finanza e la promuove. Lo fa anche lo stato, certo, ma in misura relativamente limitata e, a volte, assai modesta.

È vero che sia le aziende, sia i singoli cittadini godono di imponenti sgravi fiscali se fanno donazioni o patrocinano attività culturali, ma prima ancora che per questo motivo, la ragione profonda per cui, ogni anno, le fondazioni e le imprese commerciali, industriali e finanziarie e le singole persone investono cifre astronomiche in musei, spettacoli, mostre, biblioteche, università… ha le sue radici in una cultura, in una coscienza civica secondo la quale se una società vuole avere un vita intellettuale e artistica ricca, creativa e libera, tutti i cittadini, senza eccezioni, hanno il dovere di farsene carico e di sostenerla. Si deve a questo se, a differenza di quanto succede in altri stati in cui i governi, con atteggiamento filantropico, trasformano la cultura in un prodotto ufficiale di auto-promozione e di manipolazione burocratica, in paesi come l’Inghilterra e gli Stati Uniti la cultura ha questo volto indipendente e plurale, garanzia della sua libertà, del suo rinnovamento e della sua costante sperimentazione.

Nei due mesi in cui sono stato lì ho visto, per esempio, in che modo raccoglieva contributi per il proprio restauro, il Museo del Barrio, nella parte latina di Harlem, che espone opere dell’arte sudamericane e centroamericana. Per ora ha già ricostruito il suo magnifico auditorium, un gioiello della Belle Epoque. Durante la cena di gala, organizzata per ottenere nuovi fondi, in poche ore sono stati raccolti circa quattro milioni di dollari. È vero, una vita culturale che abbia poche sovvenzioni statali e che basi la propria esistenza soprattutto sulla società civile, è cara. Quella di New York lo è; e certi spettacoli, come l’Opera e i concerti, hanno prezzi proibitivi. Comunque, tutto ciò che vale la pena d’essere visto, a New York, è sempre pieno di gente; e i due grandi musei, il Metropolitan e il Moma registrano, ogni anno, più presenze dello Yankee Stadium e del Madison Square Garden.

Sotto molti aspetti la città è diventata, attualmente, quel che è stata Parigi per molte, precedenti generazioni: il luogo d’approdo ambìto per tanti giovani artisti e molti creativi, convinti, a ragione, che se avranno successo qui lo avranno nel mondo intero. Non capita solo a musicisti, pittori, ballerini, attori e registi. Succede anche agli scrittori. Sono rimasto sorpreso di fronte al gran numero di giovani poeti, romanzieri, drammaturghi di vari paesi dell’America Latina arrivati negli ultimi tempi a New York e che scrivono o tentano di farsi strada nella città dei grattacieli. Alcuni hanno legami con università o fondazioni, altri sopravvivono come possono, lavorando in librerie, case editrici o suonando la chitarra nei bar e, persino, agli angoli delle vie. Però pubblicano riviste, fanno teatro e in quasi tutte le librerie newyorkesi ci sono settori dedicati esclusivamente a libri in lingua spagnola. Ho trascorso due mesi intensi ed esaltanti in questa città effervescente.

Vivevo nei pressi di Union Square, un quartiere simpatico e pieno di vita, con caffè di stampo europeo dove potevo sedermi a leggere il giornale o a prendere qualche appunto bevendo un cappuccino. E dove si trova Strand, la libreria per la compravendita di libri antichi più grande del mondo. Ho visto magnifiche mostre e alcune rappresentazioni teatrali – una di Beckett con John Turturro, in particolare – allestite in modo sublime. E film, molti film grazie alla concomitanza con il festival di Tribeca che, per dieci giorni, fa piovere su New York lungometraggi da tutto il pianeta. E, comunque, ho sempre avuto la sensazione che a questa meravigliosa città mancasse qualcosa perché io potessi sentirmi a casa. Che cosa manca? Anni, storia, tradizione, antichità. Elementi che costituiscono l’anima di qualsiasi città europea e, persino, del più piccolo e remoto villaggio, quell’invisibile presenza che stabilisce un legame tra oggi e ieri, quei secoli d’avventure, di guerre, di capolavori d’arte e di moti storici, religiosi e culturali dai quali è nata la civiltà in cui viviamo. A New York tutto è così recente da trasmettere l’idea che il passato non sia mai esistito, che la vita sia solo futuro in via di realizzazione. Sarà che, ormai, non sono più giovane, però la sensazione che, quasi, non vi sia vita alle spalle, ma solo di fronte, mi provoca una certa tristezza e un senso di solitudine.

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