New Americans Protected by Network

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I nuovi immigrati Usa vivono in tribù. Ma devono aprirsi anche agli altri gruppi Un immigrato a New YorkFin dal 1871 Walt Whitman aveva previsto il futuro delle comunicazioni tra gli esseri umani. Lo ha descritto nel suo poema ‘Una via per le Indie’: “Non hai tu visto, oh anima, quello che dal principio è il piano di Dio: la Terra interconnessa, abbracciata tutta da una rete”. Attraverso i versi di Whitman mi spiego come mai un immigrato possa approdare senza documenti, senza denaro né alloggio in metropoli dispendiose quali New York o San Francisco, per iniziarvi una nuova vita. La risposta è nei collegamenti: in ogni città ciascuno trova appoggio presso il proprio villaggio o la propria tribù – che sia un’associazione di ingegneri informatici, di alumni o di gruppi confessionali. Così l’immigrato può lavorare e sposarsi, vivere e morire all’interno del suo network.

Qual è la differenza tra i migranti del secolo scorso e quelli dei nostri giorni? Oggi, molti immigrati sono in continuo transito tra il luogo di residenza e la terra d’origine. Ogni nuovo abitante di New York porta con sé il proprio ambiente di vita, e si muove tra due mondi in un andirivieni costante. La nozione di crogiolo, di ‘melting pot’, è ormai obsoleta. Oggi si approda negli Stati Uniti, individualmente o in gruppi, senza più ‘fondersi’ nel crogiolo. Ciascuno rimane risolutamente se stesso. Alla fine del XIX secolo, l’immigrato italiano o irlandese che sbarcava a Ellis Island sognava di ‘tornare a casa’, magari una sola volta prima di morire; mentre oggi, grazie ai voli a basso costo, gli immigrati, almeno quelli regolari, possono rimpatriare anche a poche settimane dal loro primo atterraggio al JFK. Cos’è l’esilio, quando un volo di andata e ritorno costa appena 500 dollari?

Oggi gli immigrati non vedono la necessità di adottare un immaginario quanto idealizzato stile di vita americano, possono vivere in America più o meno come vivevano prima di espatriare.

Attraversando il ponte di Manhattan in una fredda mattinata di gennaio potreste imbattervi in centinaia di giovani messicani che corrono col ritratto di Padre Jesus, il santo patrono del villaggio di Ticuani (Puebla) stampato sulla maglietta. Questa corsa rituale, chiamata Antocha, è in origine un pellegrinaggio da Città del Messico a Ticuani in onore del santo; solo che qui questi ragazzi corrono dal centro di Manhattan a una chiesa di Brooklyn, dove c’è una riproduzione in grandezza naturale del santo venerato nel loro villaggio natale.

A New York, città poliglotta, si possono trovare strane intersezioni di network, di gruppi che fanno fronte comune contro un avversario. Ho conosciuto a Queens un giovane di Gujarat che mi ha detto di far parte di una gang di Jackson Heights chiamata Punjabi Boys Network, costituita da ragazzi provenienti dall’India, dal Pakistan, dall’Afganistan e dal Bangladesh – tutti paesi che a un dato momento sono stati in guerra tra loro. Ma a Queens prevale ciò che unisce questi ragazzi: il loro antagonismo nei confronti dei liceali latinos e afro-americani. Di fatto, la formazione di network tra gli immigrati comporta un rischio: quello dell’emarginazione dei gruppi preesistenti come gli afro-americani, che si trovano a dover competere per i posti di lavoro con i nuovi arrivati. Tra il 2000 e il 2004 la popolazione nera di New York City è diminuita di 30 mila unità. Molti neri nati negli Usa lasciano le città, e al loro posto si insediano nuovi immigrati dall’Africa e dai Caraibi. Mentre il tasso di disoccupazione nazionale è del 5,7 per cento, negli ultimi anni due terzi (se non la metà) dei giovani neri di sesso maschile con diploma di scuola superiore non hanno trovato lavoro; e tra quelli che hanno abbandonato gli studi il tasso di disoccupazione oscilla tra il 59 e il 72 per cento!

Quando riescono a progredire nella scala sociale, i network di immigrati si impegnano in favore dei paesi d’origine. Gli sforzi dei tecnici indiani per sostenere in India progetti idrici o introdurre nei villaggi tecnologie moderne hanno avuto un’importanza determinante. Ma l’azione di questi network presenta una vistosa lacuna: la mancanza di rapporti con gli altri gruppi minoritari degli Usa. Secondo la valutazione della sociologa AnnaLee Saxenian, nel settore hi-tech la presenza di afro-americani e latinos “si aggira intorno al 2 per cento”. L’immigrazione suscita risentimento tra i nativi che non riescono a sostenerne la concorrenza tanto a livello di qualifica che di stipendio; e l’animosità aumenta quando i nuovi immigrati sembrano riversare il loro impegno sociale e la loro generosità sul paese d’origine, dove spendono il denaro guadagnato negli Stati Uniti. È facile sentir formulare accuse sgradevoli come quella di una ‘doppia fedeltà’.

Negli anni 1950-1960 gli ebrei americani parteciparono alle lotte per i diritti civili, costruendo con la comunità afro-americana un ponte che si è rivelato durevole, anche in tempi di dissidi tra questi gruppi. Quando hanno successo, gli asiatici, come gli africani e gli europei, dovrebbero guardarsi intorno anche nel luogo in cui vivono, e dare aiuto dove più grande è il bisogno. È necessario che tra i network si arrivi a un’assistenza reciproca, guardando al di fuori della propria tribù o nel proprio villaggio. Solo così si formano le comunità e le nazioni. Solo così i loro network abbracceranno realmente la Terra.

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