McCain-Obama: the Duel That Serves as a Lesson

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Mccain-Obama il duello

che fa scuola

GIAN GIACOMO MIGONE

Dopo il terzo e ultimo dibattito diretto tra McCain e Obama vale la pena tirare qualche somma su questo tipo di confronto. La drammaticità della crisi finanziaria non ha oscurato la rilevanza della corsa presidenziale americana, giunta a una fase decisiva in cui le posizioni dei candidati si intrecciano con le decisioni del Congresso e dell’Amministrazione in carica. Soprattutto le modalità del confronto continuano a risultare importanti, forse decisive, per un paese che non deve cedere al panico. Al punto che, nel secondo e nel terzo dibattito, John McCain ha resistito alla tentazione di seguire il consiglio della Palin, di ricorrere a colpi sotto la cintura di un Obama ormai in vantaggio, anche se la maggiore aggressività e qualche scivolata tradiva il nervosismo del candidato repubblicano, in svantaggio nei sondaggi d’opinione. Malgrado ciò, è prevalso il bisogno di presentarsi con calma e civiltà a un elettorato impaurito, ma non disposto a premiare certe forzature e menzogne presenti negli spot elettorali soprattutto repubblicani. Vediamo come. Ogni riferimento alla realtà italiana non è puramente casuale.

Ciò che più mi ha colpito è la perdurante stima e persino la simpatia reciproca che continua a trasparire da discussioni a tratti durissime nel merito e nei giudizi reciproci. Parole, modo di fare, umore dei rivali non davano adito a dubbi. La diversità è riservata alle posizioni politiche. Lo stile costituisce il patrimonio comune.

Un’altra presenza importante è la memoria. Ciò che viene detto non cancella ciò che è stato detto il giorno (o l’anno) precedente. Perché su ciò si gioca un valore fondamentale, la coerenza, che non è immobilità di giudizio. Anche a un candidato alla presidenza degli Stati Uniti è concesso cambiare opinione, purché non neghi di averlo fatto e sappia spiegarne in maniera soddisfacente la ragione.

Altrimenti viene richiamato all’ordine dall’avversario o, ove occorra, dai media. Non viene necessariamente penalizzato chi ammette di essersi sbagliato. Sicuramente non viene disprezzato. Chi lo facesse sarebbe a sua volta esposto a critiche. Ad esempio, la battuta di McCain che ha segnato il terzo dibattito – «Non ti stai battendo contro Bush» – è stata riconosciuta come legittima perché le differenze rispetto al presidente in carica esistono, anche se Obama ha buon gioco nel sostenere che l’esigenza di mobilitare l’elettorato neoconservatore le ha oscurate nel corso della campagna elettorale. Perciò il principio di verità è importante. Più volte Obama ha detto: «Non è vero», a cui è seguito un chiarimento di McCain che, a sua volta, ha spesso replicato o affermato: «Non hai capito». Le interpretazioni variano, ma i fatti esistono e prima o poi vengono richiamati da qualcuno, a condizione che siano effettivamente rilevanti. Nel migliore dei casi anche da chi si è accorto di essersi sbagliato.

Un dibattito di questo tipo si permea di una sorta di onestà intellettuale che condiziona la gestione delle regole del gioco. È vero che esse vengono lungamente negoziate dai collaboratori dei contendenti, come anche la scelta del moderatore. In realtà, ai fini del rispetto di quelle regole, i moderatori sono risultati quasi superflui. Bastava un’espressione del loro viso o un piccolo gesto per richiamare all’ordine o ai tempi prestabiliti chi aveva la parola. Essi potevano concentrarsi su richiami alla necessità di rispondere in maniera più puntuale a un interrogativo o a un fatto distorto o ignorato, senza l’ombra di una manipolazione che li avrebbe professionalmente screditati.

So bene che tutto ciò può sembrare una versione idealizzata di ciò che è avvenuto; soprattutto di quanto sta dietro a una gara spietata per una posta altissima come quella della presidenza, in un contesto drammatico che potrebbe volgere al tragico. È vero che, anche in questa campagna elettorale, i colpi bassi non sono mancati; che, soprattutto, gli spot televisivi di impostazione negativa sono palesemente manipolatori, come severamente stigmatizzato dal New York Times; che le primarie hanno avuto uno stampo spesso sgradevole e fatuo (tuttavia raramente da parte dei due contendenti finali). Nel merito, poi, sono numerose le critiche che si possono muovere sia a McCain sia a Obama. Soprattutto la loro inconsapevolezza, auguriamoci più manifesta che reale, del mondo che il vincitore dovrà affrontare dalla Casa Bianca: un mondo ormai multipolare, che non si piega a nessuna forma di unilateralismo, in cui il potere degli Stati Uniti è visibilmente declinante.

Tuttavia, in quel mondo pieno di tensioni non soltanto finanziarie, vi è ancora molto da imparare da un paese che mette in campo due candidati presidenziali che entrambi, repubblicano e democratico, di comune accordo, indipendentemente dal colore della loro pelle, come sede del loro primo dibattito scelgono «Ole Miss». Quell’Università del Mississippi tutta bianca che richiese l’intervento federale perché James Meredith, studente americano di origine africana, vi si potesse iscrivere. Auguriamoci che questa scelta iniziale sia accolta da un elettorato che non ceda alla tentazione di scegliere il proprio presidente proprio sulla base del colore della sua pelle.

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