Proofed by Robin Koerner
Barack Obama, acclamato all’inizio della campagna elettorale come il nuovo Kennedy, ha tagliato il traguardo nei panni del «Roosevelt nero », l’uomo che può salvare l’America dal tracollo con un altro New Deal. Nello strano tepore di questa notte di novembre a Chicago i dati del voto che scorrono sui tabelloni disseminati nel prato del Grant Park alimentano la frenesia di migliaia di fan del candidato democratico. Il boato più grande quando la Pennsylvania, Stato al quale McCain si era aggrappato disperatamente, viene assegnata a Obama. Che è avanti anche in altri Stati-chiave, soprattutto la Florida. Ma McCain ha rimontato in Virginia e a tarda sera (negli Usa) è ancora in corsa.
Il vantaggio del senatore dell’Illinois rispecchia un finale di campagna condizionato in larga misura dalla crisi nella quale il Paese è sprofondato nelle ultime otto settimane. Obama ha raccolto larghi consensi tra i lavoratori e i ceti medi usciti impoveriti dal quarto di secolo dell’«era Reagan». Ma ha avuto anche il sostegno di cento altri gruppi, coalizioni di interessi, reti sociali, messi insieme dalla sua formidabile macchina elettorale. Ha tifato per lui perfino il mondo della finanza. Può sorprendere, visto che il leader democratico vuole dare più potere ai sindacati e intende porre limiti alla libertà di scambi commerciali. Ma, in fondo, anche negli anni ’30 del Novecento la terapia di Roosevelt impiegò molto tempo per risollevare l’occupazione, mentre fu un toccasana quasi immediato per la Borsa.
Smarrita nella crisi, l’America di oggi ha fame di certezze, ha bisogno di vedere un progetto, un percorso. Obama li aveva costruiti da tempo mentre John McCain, iniziata la campagna tenendo sotto braccio il generale David Petraeus, a un certo punto ha dovuto cambiare copione. Impresa per lui complicata: la volata, alla fine, gliel’ha tirata solo «Joe l’idraulico». La battaglia a tutto campo è diventata soprattutto uno scontro su come produrre e distribuire la ricchezza. Un calvario per il candidato repubblicano, a disagio sui temi economici e costretto, per non scoprirsi a destra, a fare sua una ricetta fiscale di Bush che in passato aveva bocciato.
Nonostante ciò McCain ha dato ancora una volta prova della sua leggendaria capacità di resistenza anche nelle situazioni più avverse. Ma a questo punto la sua rimonta è davvero problematica. Se la spuntasse sarebbe una grande sorpresa: la vittoria di quelli che pensano che, davanti all’esperienza e alla storia di Mc- Cain, Obama sia solo «un bel vestito su una stampella»; e anche di un’America, poco visibile ma forte, che teme quella che vede come la rabbia repressa dei neri, un popolo che non dimentica il passato in schiavitù e oggi si sente comunque confinato in un ruolo subalterno. Difficilmente, però, le previsioni della vigilia verranno sovvertite: la crisi ha cambiato l’America più in profondità di quanto non appaia a prima vista.
Pesano meno le battaglie sui temi etici: i cultural warrior combattono meglio quando l’economia prospera. Anche per questo nell’ultimo mese l’immagine di Sarah Palin si è appannata. La gente ha ancora voglia di sperare, ma ha perso il suo proverbiale ottimismo e, sempre più incapace di misurare la distanza tra l’American dream e la realtà del Paese, trova in Obama, come dice Bruce Springsteen, l’uomo che ha portato la misura di quella distanza nella sua vita e nel suo lavoro. Da oggi si volta pagina: si parlerà del grande crack con un linguaggio più crudo, le promesse di sconti fiscali verranno ridimensionate. E alla «nuova Bretton Woods» bisognerà negoziare con gli altri Paesi ammettendo le proprie colpe. Riavvicinare il sogno alla realtà richiederà anni e costerà al vincitore di questa notte gran parte del suo capitale politico.
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