Europe Has Yet to Learn from America

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E’ raro vedere una collettività che si trasforma in qualcosa di migliore, come è accaduto ieri negli Stati Uniti. Che medita su se stessa e le proprie ferite senza trasformare la memoria in coltello ma vivificandola e dunque mutandone il taglio, il peso. Anche per l’Europa, come per il mondo, il momento è raro e prezioso: l’elezione di Obama a presidente non è un disastro caduto sull’America, che la squassa indicibilmente come l’11 settembre 2001: ansiosi di riempire il vuoto dell’indicibile, gli europei s’identificarono nell’ora del dolore con l’oltre Oceano. Il modo in cui l’America ha vinto se stessa e i propri mostri scegliendo Obama, la rinascita d’una visione antica che egli incarna, il desiderio di cambiare se stessi più che il mondo: qui è la lezione del 4 novembre per l’Europa.

L’errore più grande sarebbe di dire, come nel 2001: «Siamo tutti Americani».

Adesso che l’America comincia a parlare a se stessa è ora di dire, a nostra volta: «Siamo tutti Europei». Abbiamo anche noi un sogno unitario, che tardiamo a realizzare. Siamo anche noi assetati d’un cambiamento che non ci allontani dai nostri padri fondatori, ma ci riporti a loro. È un sogno culturale e politico, al tempo stesso. Proprio come per Obama.

Il sogno culturale è quello di una società che aspira alla libertà, ma della libertà sa governare gli eccessi. Uno dei padri del federalismo Usa, Madison, diceva che «il governo è la più grande riflessione sulla natura umana». L’uomo non tende spontaneamente all’eguale opportunità per tutti, a includere chi è diverso per fede, etnia: bisogna ragionare sui suoi difetti, governarlo, responsabilizzarlo. La storia cambia con Obama perché narra di un afro-americano che in una sola generazione ­ poco più di quarant’anni, dopo la fine dell’Apartheid negli Stati Uniti ­ diventa Capo dello Stato. Ma è il riscatto di tutti i diversi, non solo dei neri: nel discorso di ieri, il nuovo Presidente si è rivolto ai poveri, agli anziani, ai ricchi, ai neri, ai bianchi, agli ispanici, agli asiatici, agli americani autoctoni, ai gay, ai disabili.

Un elogio così denso della diversità non sarà senza effetti in Europa, che sta divenendo anch’essa un crogiolo dove si incontrano razze e stili di vita diversi. Dove la sfida è unificarli, senza toglier loro speranza e parola. La nostra tentazione da oltre un decennio è di chiuderci, di cercare una sola radice identitaria, un solo colore, nell’illusione che il declino si fermi così. A partire da oggi sarà più difficile accusare chi non è d’accordo di desueta correttezza politica, di non sintonia con il pensare moderno. È il caso dell’Italia, specialmente. Frasi come quelle che intendiamo da tempo, sui musulmani o i Rom o le scuole differenziate, diventano indecenti con Barack e Michelle Obama alla Casa Bianca.

La seconda lezione è politica. Uno degli slogan di Obama è stato, fin dal cruciale discorso sulla razza tenuto il 18 marzo a Filadelfia: l’America ha una splendida costituzione, ma «non è un’Unione compiuta». È qualcosa che ancora dobbiamo perfezionare, ultimare. Identiche parole disse l’Europa a se stessa nel 1992, a Maastricht, quando annunciò il passaggio dalla Comunità a un’«Unione sempre più stretta». Anche il nostro è un processo più che una forma compiuta, un movimento incessante più che uno stato d’immobilità.

Le relazioni tra America e Europa saranno fruttuose se i due sogni cresceranno nei nostri Paesi, prendendo come esempio la catarsi americana ma anche il lavorio dei nostri padri fondatori. La risposta al declino, l’Unione europea la medita da più tempo degli Stati Uniti. La forza del diritto che prevale sul diritto della forza è un suo fondamento. La follia di grandezza, noi ne sappiamo i disastri più degli americani. Obama conosce poco l’Europa, dunque l’iniziativa urge farla partire da noi. Non sarà semplice: è più facile farsi intendere da un presidente che accentua il declino Usa anziché ripararlo. Ma possiamo farcela, se avremo la nostra catarsi. Se non ci limiteremo a rimanere a bocca spalancata, abbacinati dall’eccezionalismo americano. Come dice Pessoa: «Tutto vale la pena, se l’anima non è piccola. Dio diede al mare il pericolo e l’abisso, ma è in lui che fece rispecchiare il cielo».

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