The White House Waits For Forrest Gump

<--

Il Vecchio Cronista che ha cominciato a frequentare gli Stati Uniti dall’estate del 1950 ricorda due fatti davvero emblematici. Subito dopo l’assassinio di Kennedy, il direttore de La Stampa (l’irripetibile Giulio De Benedetti) mi spedì nel profondo Sud. Erano in pochi a piangere Camelot. A Little Rock intervistai il governatore Faubus, quello che impediva agli scolari neri di entrare nella scuola dei bianchi. Disse: «Se la son voluta, troppa spocchia. Han tutto, come gli studenti bianchi. Segregazionismo?, balle». A Buckingham (Alabama) un giorno presi posto al tavolo che mi avevano assegnato al ristorante dell’albergo. In attesa del maître mi immersi nella lettura di Ebony, rotocalco patinato fatto e letto da neri. Finito di leggere m’accorsi ch’era trascorsa mezz’ora buona sicché feci cenno al maître. Venne strascicando i piedi ostentatamente. «Vorrei ordinare il lunch», dissi. «Temo che dovrà servirsi del room-service», rispose. «E perché mai?». «Semplice, signore: leggendo davanti a tutti quella rivista di negri, “per” negri, lei ha provocato il personale che qui grazie a Dio è tutto bianco». S’inchinò, se ne andò.

A Jackson (Mississippi) quella comunità protestante aveva vietato l’ingresso nei templi ai sacerdoti neri. Per scrupolo professionale decisi di verificare l’ukase, di più: pregai un sacerdote nero di accompagnarmi, sempreché se la sentisse. Se la sentiva, andammo con mezza città appresso. Si accedeva alla chiesa scalando una erta gradinata di falso marmo di Carrara. Sulla soglia del tempio troneggiava il Pastore, ricco commerciante di tessuti. «Alt», disse il Pastore al prete nero. «Lei, fratello, non può entrare».

Perché? «Perché è la nostra chiesa, questa. Costruita col nostro denaro, una chiesa solo per noi, bianchi. La persona che l’accompagna può entrare e pregare con noi perché è bianco come noi», sillabò il Pastore. Feci per voltargli le spalle e andarmene ma il prete nero mi pregò di rimanere. Assistetti alla messa per soli bianchi. Tutta sopra le righe, una sorta di macumba saccheggiata dall’odore ruffiano della cera.

Sessant’anni dopo, il razzismo agonizza: un nero, lui, Barack Hussein Obama, entra nella Casa Bianca. Ha vinto l’America del cinema, della penicillina, del jazz, del petting, dell’atomica; della ricerca, della danza sulla Luna e delle stramberie. Ha vinto l’America del common sense, sorgente del pragmatismo di Dewey. Ma l’elezione del primo Presidente nero della Storia americana è soprattutto la consacrazione del melting pot calato nei fatti. Che a sua volta ha liftato i connotati d’un grande Paese-Continente usurati da un’improvvida guerra postcoloniale. Il vincitore è un metronomo umano che ha saputo crescere e agire da americano. I suoi compagni di scuola ci dicono che Barack era un ragazzino timido, a volte confuso. Oggi egli, semplicemente, con la sua ispirata voce da gospel, dice: «Mi sono fatto crescendo. E crescendo ho sperimentato che tutti gli americani hanno le stesse opportunità. Basta crederci». (Senza malizia: avete presente Forrest Gump?).

La Grande Nazione che ha distrutto il nazismo offre a chiunque almeno un’opportunità nella vita, ma per farcela, per rompere il guscio duro dell’anonimato occorre passare attraverso la cruna la più stretta. Il nuovo Presidente è approdato alla cattedra universitaria e persino al Senato passando, ostinatamente, per la cruna più ardua. Una cosa è cambiare idea, un’altra è capire «come fare» per convincersi che «si può fare». Vedremo se il giovine Presidente riuscirà a trovare gli strumenti adatti per concretizzare uno slogan felice: «Si può fare».

About this publication