Barack and the Missing Terrorist

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Barack Obama ha in programma di chiudere Guantanamo. Sarà uno degli atti più significativi della sua presidenza. Paragonabile alla decisione di Gorbaciov, all’inizio della perestrojka, di liberare i prigionieri politici ancora in carcere o sparsi in esilio nell’immensa Unione Sovietica. Sarà un gesto di rottura col declino della cultura giuridica americana durante la presidenza Bush. Quando, sull’onda dell’11 settembre, con il Patriot Act i diritti dei cittadini americani sono stati lesionati: i controlli senza autorizzazione delle relazioni personali sono stati di fatto legalizzati, la tortura è stata reintrodotta negli interrogatori di prigionieri ed è entrata nel dibattito politico, giuridico, costituzionale come cosa ammissibile per strappare confessioni.

Ma Obama dovrebbe anche dare un’occhiata alle carceri «normali». Ho incontrato Aicha El-Wafi, la madre di Zakharias Moussaoui, l’unico «terrorista» (in verità aspirante terrorista, perché fu arrestato nell’agosto 2001, due settimane prima dell’attentato alle Torri Gemelle). Moussaoui è stato condannato al carcere a vita come «il ventesimo dirottatore» mancato dell’11 settembre. È emerso a processo concluso che il «ventesimo» era un altro, Tourki ben Fheid al-Mouteiri-Faouaz al-Nachmi, saudita, ucciso nel 2004. La fonte è Al Qaeda. Forse non le si può credere, come non si può credere allo stesso bin Laden, che ha scagionato Moussaoui. Scagionato con suo disappunto, perché la sua condotta processuale è stata tutta all’insegna del voler dimostrare la propria colpevolezza. Recentemente è apparso, negli atti processuali di un altro presunto terrorista imprigionato a Guantanamo, che il «ventesimo» era un altro ancora. Resta il fatto che Moussaoui è l’unico che, per l’11 settembre, sia stato processato pubblicamente e condannato da un tribunale normale.

La storia di sua madre è straordinaria. Aicha l’ha raccontata in un libro che ha avuto grande eco in Francia, dove abita, tradotto in Italia da Piemme: Mio figlio perduto. Donna indomabile, ha allevato da sola quattro figli, sfuggendo a un marito padrone e violento. E non ha abbandonato Zakharias, pur non condividendo nulla delle sue idee. Una madre che non proclama l’innocenza del figlio, ma chiede che sia condannato per quello che ha fatto, non per un’azione che non ha commessa e che non poteva commettere. Ho potuto misurare la sua tenacia, la forte coscienza dei suoi diritti di donna e madre. Ovvio che parla spinta dall’affetto e della pietà materna. Ma la sua descrizione del sistema processuale e carcerario degli Stati Uniti di Bush fa accapponare la pelle anche in un Paese come il nostro in cui la condizione dei carcerati è in certi casi indecente.

Zakharias vive in isolamento totale: nessuna possibilità d’incontrare altri detenuti, permanenza 23 ore al giorno in una cella di tre metri per due. Un’ora di movimento isolato e sotto sorveglianza a vista. In cella la luce sempre accesa. Niente giornali né libri. Alla tv, solo programmi religiosi. Niente visite. È la descrizione di una vendetta più che di una pena. Aicha chiede solo che vengano mitigate le condizioni estreme. Obama dovrebbe ascoltare la sua preghiera.

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