Prima la rinuncia a eliminare subito gli sgravi fiscali per i ricchi e a introdurre una tassa straordinaria sulle compagnie petrolifere, come promesso in campagna elettorale. Poi l’avvertimento che, dalla sanità alle pensioni, molti impegni e programmi di spesa andranno ridimensionati alla luce della gravissima crisi economica.
Le correzioni di rotta di Obama si stanno moltiplicando: alcune sono suggerite dalla recessione, altre vanno ben oltre. Come nel caso del prolungamento della presenza militare Usa in Iraq o in quello della rinuncia a chiudere subito il carcere di Guantanamo, un rinvio obbligato ma che ha fatto sensazione (visti gli impegni elettorali) tanto che il presidente eletto è stato costretto ieri a correggere il tiro. «Non mi sembra ancora il caso di andarlo a cercare col forcone, ma non è questo il cambiamento che ci aspettavamo» si sfoga sul Washington Post David Corn, il caporedattore di Mother Jones, magazine della sinistra radicale.
Nessuno mette apertamente sotto accusa Barack Obama per la formazione di un governo zeppo di centristi o per il ridimensionamento dei suoi impegni. Il personaggio è sempre popolarissimo e, del resto, non ha ancora nemmeno cominciato a governare. Ma, quando manca ancora una settimana al suo insediamento, tra i «liberal» e nella sinistra dei «blog» già serpeggia una certa delusione, mentre anche nella maggioranza democratica al Congresso si diffonde il malumore. Obama sperava di arrivare alla cerimonia del giuramento col suo piano anti- recessione — una legge di sostegni all’economia da quasi 800 miliardi di dollari— già approvato dalle Camere.
Invece, nonostante l’enfasi che ha posto sull’urgenza di intervenire per bloccare il rapido deterioramento del quadro economico, il nuovo presidente si è dovuto rassegnare a un iter tortuoso, col provvedimento che sarà esaminato da tutte le commissioni principali. E’ durata poco l’illusione «di ottenere in Parlamento un trattamento da Immacolata Concezione» ironizza sul New York Times l’editorialista conservatore David Brooks. Certo, c’è chi contesta perché è stato «lasciato a terra», più che per preoccupazioni programmatiche. E’ il caso di John Kerry, un critico puntiglioso della nuova amministrazione da quando Obama ha scelto Hillary Clinton, anziché lui, come Segretario di Stato.
Anche nelle severe e ripetute critiche di Paul Krugman all’inadeguatezza del piano di Obama i maliziosi vedono un riflesso della delusione dell’economista, fresco di premio Nobel, per non essere stato chiamato alla corte del nuovo leader. Ma forse nel caso di Krugman, più che di poltrone, il problema è politico: il neopresidente ha selezionato soprattutto personaggi che già avevano avuto esperienze di governo nell’era di Bill Clinton e ha fatto scelte politiche di centro, mentre Krugman, così come Joseph Stiglitz, è molto spostato a sinistra: non gli bastano stimoli e opere pubbliche, vuole un vero statalismo.
The Nation, voce ufficiale della sinistra radicale, invita i «liberal» a non fasciarsi la testa: «Certo, Obama si sta comportando da centrista e da pragmatico, ma viviamo in tempi straordinari e il suo può essere il modo giusto per ottenere risultati in un’ottica progressista ». E’ nervosa anche l’attesa dei sindacati: Obama non si è rimangiato la promessa di varare una legge per facilitare il loro ingresso nelle aziende. Ma, da quando è stato eletto, non ne ha più parlato.
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