Obama’s One Hundred Days in The Footsteps of Roosevelt

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Il nuovo presidente deve giocare subito le sue carte contro la crisi economica

Ecco quali saranno le sue prime mosse, con un occhio al passato

I cento giorni di Obama,

sulle orme di Roosevelt

dal corrispondente MARIO CALABRESI

Barack Obama

HYDE PARK (New York) – Franklin Delano Roosevelt era un coraggioso ottimista: da ragazzo ogni inverno correva con un’iceboat, una barca a vela con i pattini che gli aveva regalato la madre, sul fiume Hudson ghiacciato. Lo intravedeva dalle finestre di casa, tra gli alberi, e nelle mattine più fredde dell’inizio del Novecento scendeva a sfidarlo. “L’unica cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa”, dirà trent’anni dopo giurando come trentaduesimo presidente degli Stati Uniti, ma questa volta non pensava alla tenuta del ghiaccio bensì alla democrazia del suo Paese.

La frase rimarrà la più famosa che abbia mai pronunciato, anche se allora quasi nessuno lo applaudì sulle scale del Campidoglio e pochi giornali la riportarono. Oggi è tornata di moda: Barack Obama se l’è studiata bene e da quando la crisi economica ha cominciato ad essere paragonata alla Grande Depressione, Roosevelt è diventato il suo portafortuna, l’esempio da cui attingere a piene mani, il modello su cui ricalcare i primi Cento Giorni alla Casa Bianca.

Già all’inizio di ottobre, durante la campagna elettorale, quando la paura per il crollo della finanza cominciava a dilagare, era salito su un palco in Ohio e citando Roosevelt aveva detto: “Non è il tempo del panico, ma il tempo per risolvere i problemi e ricostruire la fiducia”.

Per diventare presidenti nel 1933, all’apice della Grande Depressione, di coraggio bisognava averne parecchio, più di quanto ne serva oggi: all’alba di sabato 4 marzo, poche ore prima della cerimonia di insediamento, Roosevelt ricevette la notizia che i governatori di Illinois, New York e Pennsylvania avevano ordinato la chiusura di tutte le banche dei loro Stati a tempo indefinito dopo che ne erano fallite 4mila. La disoccupazione superava il 25 per cento, la Borsa era crollata del 75 per cento dal 1929, la fame e la povertà avevano conquistato campagne e città ed era triplicato il tasso dei suicidi.

Ma Roosevelt apparve di fronte al Campidoglio di Washington e disse che non bisognava avere paura: per cento giorni convocò il Congresso in sessione straordinaria e tra il 5 marzo e il 16 giugno varò una serie senza precedenti di provvedimenti d’emergenza che cambiarono la storia e il volto dell’America.

Il discorso per l’inaugurazione lo scrisse, in poco più di quattro ore, la mattina di lunedì 27 febbraio 1933, qui nella casa di Hyde Park, quella sull’Hudson dove era nato e cresciuto. E qui, dove oggi c’è la sua biblioteca presidenziale in mezzo ai boschi e alla neve, bisogna venire per trovare le radici della più straordinaria partenza che un presidente abbia mai fatto nella storia americana e per capire cosa farà Barack Obama. Qui sono stati messi in mostra i documenti, le carte, i libri e gli oggetti di quella corsa contro il tempo e contro la paura che sono i Cento Giorni di FDR.

“Bisogna agire e agire subito”, ripete Obama in ogni discorso da prima di Natale, ma la frase è una delle tante che ha preso da Roosevelt, così come lo slogan: “Il nostro obiettivo è rimettere la gente a lavorare”. E poi ci aggiunge un motto delle zone rurali d’America: “Shovel ready”, ovvero “con la pala in mano”, per dire che è pronto a scattare al lavoro.

Sul tavolino da notte del primo presidente nero, per tutto l’autunno, c’è stato un libro del giornalista Jonathan Alter che si intitola “The Defining Moment”, il “momento cruciale”, e che racconta i primi tre mesi della presidenza Roosevelt e “il trionfo della speranza”. L’espressione defining moment gli è talmente piaciuta che l’ha usata anche nel discorso della vittoria a Chicago, quando ha detto che “il cambiamento è arrivato in America”.

Franklin Delano Roosevelt

Obama ha letto e riletto le 400 pagine per capire prima di tutto come fece FDR a comunicare con i cittadini, a spiegare cosa stava succedendo e a convincerli a ritrovare la fiducia. Roosevelt entrò nelle case di più di 60 milioni di americani grazie alla radio: la domenica sera parlava per mezz’ora e spiegava e rassicurava, erano nate le “conversazioni del caminetto”. Nella biblioteca di Hyde Park lo si può riascoltare: aveva un tono pacato, uno stile intimo e informale, era didascalico, semplice e scandiva ogni parola. Anche Obama ha riascoltato questi nastri, ha studiato ogni dettaglio della voce e soprattutto ha cercato il segreto per tranquillizzare un popolo ansioso e per bilanciare l’urgenza di agire con la necessità di diffondere speranza.

Ora Obama dice che con il suo discorso inaugurale vuole spiegare nel modo più onesto e veritiero possibile quale è la situazione e quali sono le idee migliori per superare la sfida. Roosevelt sperimentò molte ricette, non tutte funzionarono ma lo sforzo fu incredibile: riportò la calma nel sistema bancario, mise tre milioni di giovani a piantare alberi, costruire parchi e aree protette, rifinanziò i mutui di un milione di persone che rischiavano di perdere la casa o la terra, riscrisse le regole della finanza e varò il più grande piano di lavori pubblici della storia finanziando 270mila progetti in tutta America. Fece costruire ponti, tunnel, strade, dighe e centrali elettriche che arrivarono a dare lavoro a due milioni e mezzo di persone. Spedì fotografi in ogni angolo del Paese per testimoniare la disperazione e lasciare un documento storico della Grande Depresione e della risposta del New Deal. Poi restituì la birra e un po’ di gioia agli americani cancellando il proibizionismo.

Anche Obama si è convinto che in un momento così particolare solo lo Stato può dare la spinta necessaria per uscire da una recessione così profonda, per questo ha chiesto al Congresso di approvare un piano di almeno 800 miliardi di dollari per rilanciare l’economia. Per questo vuole ricostruire anche lui ponti, strade e scuole, puntare sulle nuove fonti energetiche, ridare regole a Wall Street e restituire speranza.

Per conquistare i cittadini e cambiare il sentimento del Paese pensa di utilizzare tutte le tecniche che ha sperimentato in campagna elettorale: radio, televisione e internet per informare costantemente gli americani di come sta spendendo i soldi, dando i numeri delle scuole in ristrutturazione o dei posti di lavoro creati. Vuole tenere alta la mobilitazione e comunicare in continuazione, scambiando mail con gli oltre undici milioni di cittadini che sono entrati in contatto con lui durante la campagna elettorale. Roosevelt dopo i discorsi radiofonici cominciò a ricevere 50mila lettere a settimana, dieci volte di più del suo predecessore, ma Hoover aveva un solo segretario per rispondere alla corrispondenza, mentre lui mise una squadra di 50 persone ad occuparsi della posta. La Casa Bianca venne invasa da missive e telegrammi, ma Roosevelt non si montò la testa e capì subito che il messaggio per essere efficace non poteva essere ripetuto in continuazione, altrimenti avrebbe perso la sua forza, tanto che in 3.692 giorni alla Casa Bianca tenne soltanto 31 “conversazioni del caminetto”.

Obama è convinto del contrario, che la comunicazione sia un’offensiva continua e per questo ormai riempie ogni spazio possibile con i suoi messaggi. I primi cento giorni di Obama finiranno il 30 aprile, ma lui dice che preferirebbe essere giudicato sui primi mille, quanti ne toccarono in sorte a Kennedy.

Alla fine dei Cento Giorni di Roosevelt la Grande Depressione non era scomparsa, la crisi si sarebbe trascinata per tutto il decennio, ma in quattro anni la disoccupazione calò di 11 punti. Il presidente democratico, che venne rieletto per quattro mandati, era riuscito a bloccare il crollo, a mantenere l’ordine, a tenere in piedi la democrazia e soprattutto a restituire speranza agli americani.

Il 16 giugno, quando i Cento Giorni di provvedimenti speciali erano finiti, Roosevelt se ne andò in vacanza. Con un cappello bianco in testa salì sullo sloop Amberjack II, una piccola barca a vela affittata in Massachussetts, e navigò fino all’incantevole isola di Campobello in Canada, dove la famiglia aveva una casa per l’estate e dove nel 1921 si era ammalato di poliomielite. Non c’era mai più tornato, quel luogo di sogno si era trasformato in un incubo, da allora non aveva mai più potuto camminare senza essere assistito. Ma quel mese di giugno trovò il coraggio per farlo, dopo aver sconfitto la paura dell’America e la sua.

(15 gennaio 2009) Tutti gli articoli di esteri

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