A Little Lincoln, a Little Reagan

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Non è stato un discorso memorabile, neppure lontanamente paragonabile a quelli tenuti da JFK (Kennedy) o FDR (Roosevelt). Ma nessuna «parola» avrebbe retto il confronto con il semplice «fatto» che Barack Obama sia divenuto il 44° presidente degli Stati Uniti, il primo nero in oltre duecento anni di storia. In fondo, è stata un’ennesima manifestazione della sobrietà che contraddistingue l’uomo.

Una sobrietà che dovrà tenere a bada, affinché, in tempi grami come gli attuali, non rischi essere percepita come rigidità. Il sorriso che ha regalato al mondo, mentre incespicava sulla formula del giuramento, fa ben sperare che non voglia seguire il suo modello, Abramo Lincoln, anche nel moralismo tristanzuolo da predicatore. D’altra parte, si potrebbe dire, il tempo delle chiacchiere è finito, e ora occorre che i fatti inizino a parlare, e che il nuovo presidente, come lui stesso ha ripetutamente chiesto, possa essere giudicato per quel che fa, e non per quel che è o incarna.

Barack Obama dovrà essere innanzitutto un gran traghettatore o, se si preferisce, essere quell’«Interpreter in Chief», che seppe essere Ronald Reagan, capace di prendere per mano un Paese scosso da una guerra perduta, da una presidenza dal prestigio dimidiato, dalla crisi economica e dagli oltraggi subiti in campo internazionale e lo rimise in piedi, nel nome degli autentici «valori americani». Potrà apparire paradossale accostare «l’era della responsabilità» obamiana a quella dell’ «edonismo reaganiano», ma, in realtà, l’uno e l’altro sono abili comunicatori e convincenti interpreti del discorso politico dei Padri Fondatori.

«Sfide inedite», e «strumenti nuovi», dunque, ma «valori vecchi», i solidi valori di quei testardi gentiluomini di campagna, che decisero di farsi americani perché restando sudditi inglesi non avrebbero potuto continuare a essere uomini liberi. Come osservava ieri Paul Berman nell’intervista realizzata da Maurizio Molinari, dopo le presidenze di Clinton e George W. Bush, più connotate ideologicamente, si torna all’antico, a quell’impasto di idealismo e pragmatismo che rappresenta la cifra più autentica (e meno imitabile) della politica americana. Coniugare sfide, strumenti e valori, e traghettare oggi gli americani oltre questo rigido inverno di crisi, come Washington traghettò le sue sparute truppe sulle gelide acque del Delaware, per andare a cogliere la Vittoria a Trenton e dimostrare al mondo, prima ancora che ai suoi connazionali, che «quando nulla più sopravviveva se non la speranza e il valore», che ancora una volta gli americani hanno saputo affrontare il pericolo e, uniti, averne ragione.

Mentre richiamava i valori della tradizione americana, il presidente Obama non ha però rinunciato a mantenere quella cifra di apertura sul mondo che lo rende un interprete unico, quasi il prototipo di un «nuovo» spirito americano, adeguato alle sfide del XXI secolo. Non si è limitato a dire con chiarezza ai suoi 300 milioni di concittadini che la ripresa economica e politica degli Stati Uniti non sarà possibile senza l’aiuto e la collaborazione di amici e alleati, «perché il mondo è cambiato e noi dobbiamo cambiare insieme con esso».

Pur in un momento di grave crisi economica e finanziaria, quando una parte cospicua delle risorse e delle attenzioni del Paese sarà assorbita dai malanni interni, ha voluto ribadire come la leadership americana può essere riaffermata solo a condizione che sappia mantenere la sua vocazione universale. Perché un’America confortata nei suoi valori più autentici può tornare a essere un «faro sulla collina», ma solo un’America aperta sul mondo può riuscire a riscoprire la sua anima profonda, quella che l’ha resa, agli occhi del mondo, la «terra dei liberi e dei valorosi». Non Washington, né Lincoln: ma di sicuro Franklin Delano Roosevelt, il vero architetto delle istituzioni che hanno fatto giustamente definire il ’900 come «il secolo americano», avrebbe potuto sottoscriverle, se non addirittura pronunciarle.

Un programma ambizioso, quello di Obama, come necessariamente dev’essere per poter tentare di sconfiggere una crisi che è insieme economica e di fiducia, e per la cui realizzazione ha chiesto innanzitutto la collaborazione, l’impegno di ogni cittadino americano. Chissà. Forse l’ha fatto per quella straordinaria abilità politica che ha dimostrato di avere così rapidamente accumulato. A noi piace pensare che, più probabilmente, l’abbia fatto nella consapevolezza che, in democrazia, ciò che è davvero cruciale non è né la denuncia dei problemi, né l’individuazione delle tante possibili soluzioni. Ma la capacità di decidere a quale legare la propria fortuna e di raccogliere il consenso necessario a trasformarla da programma in realtà, da parole a fatti.

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