L’America e il mondo intero, negli anni a venire, dovranno convivere con le conseguenze delle disastrose politiche di Bush e Cheney
Inquinamento negli Usa Quando il mese scorso George W. Bush e Dick Cheney hanno finalmente lasciato la Casa Bianca, non hanno potuto fare a meno di notare quanto la stragrande maggioranza degli americani ? per non parlare del resto del mondo ? fosse felice di vederli andar via.
I due milioni di persone che secondo alcune stime si sono accalcati in piedi per ore a quasi sette gradi sotto zero per festeggiare l’inaugurazione della presidenza di Barack Obama – e per fischiare in faccia a Bush ? l’hanno ampiamente dimostrato. (Non vi è parso che Cheney, in sedia a rotelle e col cappello nero in testa, incarnasse alla perfezione il gangster che i suoi detrattori hanno sempre detto che era?). Anche il presidente Obama non ha usato mezzi termini, allorché ha promesso l’avvento di una “nuova era di responsabilità”, che rimpiazzi “l’avidità” e “le false promesse” degli ultimi otto anni.
L’amara verità è che non sarà così semplice lasciarsi Bush e Cheney alle spalle: Obama, l’America e il mondo intero negli anni a venire dovranno convivere con le conseguenze delle loro disastrose politiche. (Attribuisco a entrambi la responsabilità in egual misura e ne parlo come se fossero uno perché, come ha documentato nel suo libro The Angler il giornalista del Washington Post Barton Gellman, negli ultimi otto anni Cheney ha esercitato il potere tanto quanto Bush).
L’influenza prolungata di Bush-Cheney è quanto mai evidente nell’economia, dove i massicci sgravi fiscali – da loro voluti – per i ricchi e i privilegiati hanno profondamente indebitato gli Stati Uniti prima ancora che il loro fallimentare sistema di regolamentazione di Wall Street spalancasse le porte alla peggiore crisi economica dagli anni Trenta. Adesso l’unica speranza per Obama di riportare il benessere è riposta nell’approvazione di un imponente pacchetto di incentivi economici che finirà con l’indebitare Washington ancor più. Rispetto a ciò, molto meno lampante è la montagna molto erta e scoscesa che Bush-Cheney hanno lasciato a Obama da scalare nella lotta al cambiamento del clima: dopo aver negato per ben otto anni l’esistenza del problema e aver procrastinato nel tempo qualsiasi seria iniziativa volta a porvi rimedio, gli Stati Uniti hanno finalmente un presidente che ha enormemente a cuore il cambiamento del clima. Le sue prime dichiarazioni in proposito indicano la rotta giusta: Obama ha promesso entro il 2020 di riportare ai livelli del 1990 le emissioni di gas serra ed entro il 2050 di ridurle fino all’80 per cento, portandole a livelli ancora inferiori a quelli del 1990.
Avendo compreso perfettamente che la battaglia contro il clima non potrà essere vinta se a essa non si abbinerà la battaglia per il benessere economico, il nuovo presidente intende destinare una significativa percentuale del pacchetto di stimoli economici a investimenti per posti di lavoro “verdi” e per lo sviluppo energetico. Obama ha anche promesso di costruire istituti scolastici rispettosi dell’ambiente, di incentivare l’efficienza energetica, di coibentare milioni di abitazioni e così facendo creare al contempo milioni di nuovi posti di lavoro per gli americani. Ma ecco il disguido: considerato che con Bush-Cheney l’America ha fatto meno di niente per ridurre le emissioni, le proposte di Obama ? per quanto suonino straordinarie dopo il silenzio assordante degli ultimi otto anni ? sono di fatto inadeguate rispetto a ciò che occorrerebbe fare secondo gli scienziati per scongiurare un catastrofico cambiamento del clima terrestre.
Con Bush-Cheney le emissioni dell’America, e di conseguenza quelle dell’intero pianeta, sono aumentate a tal punto che adesso si rendono necessarie drastiche riduzioni per modificare la traiettoria presa. Rajendra Pachauri, presidente dell’Intergovernmental Panel on Climate Change, ha sollevato proprio questo aspetto del problema nella recente conferenza di Washington sponsorizzata dal Worldwatch Institute, che pubblica il fondamentale rapporto ambientale annuale intitolato State of the World. Per intervenire, la Terra ha ormai una “strettissima finestra temporale”, se si vuole che il genere umano eviti le ripercussioni più gravi del cambiamento del clima: lo ha affermato Pachauri che ha poi aggiunto che già ora le conseguenze si prospettano serie e inevitabili. Ma se intendiamo far sì che non si verifichino scenari apocalittici da incubo ? quali la scomparsa totale dei ghiacciai himalayani, che comporterebbe la siccità per oltre 500 milioni di asiatici ? l’aumento delle temperature globali dovrà a ogni costo essere contenuto a 2.0-2.4 gradi Celsius al di sopra dei livelli dell’era pre-industriale.
Ciò significa che le emissioni globali dovranno toccare il loro tetto massimo entro il 2015 e poi iniziare a calare molto rapidamente. Da questo punto di vista ? continua Pachauri ? l’obiettivo dichiarato di Obama di riportare entro il 2020 le emissioni degli Stati Uniti ai livelli del 1990, “è del tutto inadeguato al tipo di intervento che si richiede ai leader dei vari Paesi” in preparazione degli importanti negoziati che si terranno a Copenhagen nel dicembre prossimo per sottoscrivere un trattato che vada oltre il Protocollo di Kyoto.
Pachauri esorta vivamente Obama a sottoscrivere invece l’obiettivo ufficiale fissato dall’Unione Europea: ridurre entro il 2020 le emissioni del 20 per cento portandole sotto i livelli del 1990, traguardo che l’Ue si ripropone di raggiungere aumentando del 20 per cento sia l’efficienza energetica sia il ricorso alle energie rinnovabili. In altre parole, la Terra necessita di interventi più drastici e in tempi molto più rapidi di quelli che Obama ha ufficialmente approvato. È sicuramente un’impresa non da poco, soprattutto in presenza di un’economia globale in piena crisi, ma il pacchetto di stimoli economici che Obama ha appena firmato è già un buon punto di partenza. Sono stati infatti previsti 71 miliardi di dollari da investire in spese “verdi” e 20 miliardi di dollari per incentivi fiscali sempre legati all’ambiente e che dovrebbero portare alla creazione di due milioni di posti di lavoro, secondo le analisi del Center for American Progress e del World Resources Institute.
La coibentazione degli edifici e le loro modifiche per il risparmio energetico, l’installazione di pannelli solari e la realizzazione di centrali eoliche richiedono sia manodopera esperta e semi-esperta, sia la creazione di posti di lavoro dallo stipendio più che dignitoso che non possono comunque essere delocalizzati. In ogni caso, se le emissioni dovranno essere drasticamente ridotte in tempi sufficientemente rapidi per conservare le condizioni di vivibilità del pianeta, occorrerà fare molto di più. In privato, il presidente Obama probabilmente si rende conto che la politica da lui varata non è abbastanza lungimirante ? per quanto i suoi consulenti scientifici siano eccellenti -, ma per lui è probabilmente molto complesso vincere le forze dello status quo senza un aiuto consistente.
Come hanno dimostrato le accese controversie sulla legge per l’approvazione del piano di stimoli all’economia, gli interessi speciali che hanno paralizzato per anni le riforme sussistono immutati. È ormai risaputo che i senatori repubblicani, e perfino i presunti centristi la cui proposta di compromesso alla fine è stata approvata, hanno chiesto e ottenuto che dal piano si togliessero i 4 miliardi di dollari stanziati per costruire o modernizzare edifici scolastici nel pieno rispetto dell’ambiente. Ma i repubblicani non sono l’unico problema: all’interno della Beltway, addirittura gli alleati di Obama stanno abbassando le loro aspettative nel nome del “realismo politico”.
Qualche giorno fa ho preso parte al briefing riservato di un illustre esperto del cambiamento climatico, nonché veterano da 30 anni a questa parte di Washington: egli ha più volte insistito, davanti a un pubblico estremamente interessato e coinvolto nella salvaguardia dell’ambiente, quanto “complesso” e “difficile” sarà approdare a un’intesa perfino sugli attuali target per le emissioni fissati da Obama. Come se Obama non si fosse appena aggiudicato un indiscutibile mandato elettorale e i democratici non avessero il controllo di entrambe le camere del Congresso.
I repubblicani si erano opposti: ne consegue che salvare il pianeta è troppo ambizioso. In simili circostanze, niente può sostituire le riflessioni a mente fredda e le forti pressioni da parte dell’opinione pubblica, elementi che dovranno entrambi prendere vita e corpo nel periodo di preparazione del summit di Copenhagen. «Non riesco a capire come mai non ci siano gruppi di giovani decisi a fermare i bulldozer, a ostacolare in ogni modo i lavori di costruzione di nuovi impianti alimentati a carbone» aveva detto Al Gore l’anno scorso.
Il 2 marzo prossimo Al Gore vedrà esaurito il suo desiderio: James Hansen della Nasa, il climatologo più esperto e illustre d’America, si unirà a centinaia di attivisti ? molti dei quali studenti del college ? appartenenti al movimento “Power Shift” per il clima, in un gesto di disobbedienza civile programmato fuori dalla centrale a carbone che alimenta l’intera struttura di Capitol Hill. Hansen sostiene da tempo che per evitare l’avverarsi di un catastrofico cambiamento del clima è necessario fermare la costruzione di nuove centrali a carbone. A giorni, per affermare questo principio, arriverà a farsi arrestare. Hansen stesso ha commentato: «Se ci sono dei giovani disposti a esporsi in ogni modo, come potranno i vecchi pazzoidi che hanno provocato questo problema tirarsi indietro?».
Bella domanda. Tuttavia sarebbe meglio rivolgerla a Bush e Cheney, i due mascalzoni che hanno appena lasciato Washington e tanto hanno fatto per lasciarsi alle spalle una simile devastazione.
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