Barack Places Blame on Auto Industry Leadership

Edited by Robin Silberman

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Il Pugno di Barack

Alberto Bisin

Il presidente Barack Obama ha delineato ieri il piano d’intervento della sua amministrazione nei confronti dell’industria automobilistica in grave crisi. Il piano comporta l’utilizzo di fondi pubblici in supporto della domanda di automobili durante la recessione. Ma comporta anche interventi diretti nella gestione di General Motors e Chrysler.

Le due società in maggiore difficoltà hanno già ricevuto dal dicembre scorso oltre 17 miliardi di dollari di aiuto a spese dei contribuenti. Prima di ricevere nuovi fondi pubblici Gm sarà molto probabilmente costretta a una rapida procedura di fallimento, guidata dal governo, che permetterà di ridurre e ristrutturare l’indebitamento e di pianificare un nuovo modello di sviluppo. L’amministrazione Obama è inoltre intervenuta direttamente richiedendo le dimissioni dell’amministratore delegato di Gm e indicando la partnership con la Fiat come condizione essenziale per la ristrutturazione di Chrysler. Per quanto questo intervento diretto del governo nella gestione di Gm e Chrysler possa apparire come una indebita intromissione negli interessi privati degli azionisti, esso pare invece appropriato in questo particolare caso. Innanzitutto perché le società sarebbero in fallimento senza aiuti statali, ed in questo caso gli azionisti perdono il controllo. E poi, almeno nel caso di Gm, il consiglio di amministrazione ha dimostrato assoluta mancanza di indipendenza nei confronti del management: l’amministratore delegato, Rick Wagoner, ha goduto dei favori del consiglio fin dal 1994, nonostante la quota di mercato di Gm negli Stati Uniti sia scesa dal 33,2% al 18,8% e nonostante il valore di mercato della società sia passato dai 70 dollari ad azione del 2000 ai 4 di oggi.

La decisione dell’amministrazione Obama di utilizzare la normativa riguardante la procedura di fallimento per ristrutturare le due società mi pare coraggiosa. Questa normativa permette infatti di agire con determinazione sia su coloro che possiedono obbligazioni delle società che sui sindacati e i creditori. A ognuna di queste parti sarà richiesto di convertire una parte dei propri crediti (o, nel caso dei sindacati, dei benefici in termini di assicurazione sanitaria e pensioni) in azioni. Si parla di due terzi delle obbligazioni e metà dei benefici assicurativi e pensionistici.

Gli obbligazionisti hanno potere contrattuale limitato, se non nullo, in questa situazione. Il successo della ristrutturazione di Gm e Chrysler dipenderà invece da quanti sacrifici l’amministrazione sarà disposta a richiedere ai sindacati. Un nuovo modello di sviluppo di Gm e Chrysler non può infatti prescindere dalla considerazione che i salari orari che esse hanno contrattato coi sindacati sono notevolmente superiori a quelli che ad esempio Toyota paga ai propri lavoratori non sindacalizzati (70 dollari l’ora contro 46 nel caso dei lavoratori con maggiore esperienza); per non parlare di assicurazione sanitaria e pensione.

Nel discorso di ieri Obama ha esplicitamente addossato la colpa del fallimento dell’industria dell’auto alla sua leadership, «a Washington come a Detroit», senza affrontare direttamente le questioni sindacali. Ha letto questo fallimento come l’incapacità di innovare nella produzione di automobili più efficienti e «pulite». Questa interpretazione è condivisibile solo in parte. Non è corretto dimenticare che alla radice della crisi sta soprattutto l’irresponsabilità di manager e sindacati che hanno firmato contratti finanziariamente non sostenibili, nella speranza e nella convinzione che nessuna amministrazione avrebbe avuto il coraggio di non intervenire pesantemente in aiuto dell’auto. In queste condizioni, produrre automobili competitive passava in secondo piano rispetto al mantenimento della pace sindacale e al supporto da parte della politica locale e federale.

La crisi ha portato l’amministrazione Obama a dover affrontare il rapporto tra politica e oligarchia economica, nel mercato dell’auto come nella finanza, laddove grandi società private hanno potuto evitare la competizione di mercato sostituendola con rendite «gentilmente loro offerte» dalla politica. Fino ad ora purtroppo l’amministrazione non ha saputo, a mio parere, intervenire con la forza e l’indipendenza di giudizio necessarie a strozzare queste rendite e ristabilire il funzionamento di mercati efficienti. Non lo ha fatto giorni fa con le grandi banche. Ha fatto meglio ieri con l’industria automobilistica. Vedremo se saprà farlo domani con i potenti sindacati dell’auto (e dopodomani con quelli degli insegnanti).

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