Edited by Robin Silberman
Così l’ America diventa il Paese che cambia Dio
Repubblica — 29 aprile 2009 pagina 38 sezione: POLITICA ESTERA
WASHINGTON È irrequieto il gregge, e smarrite le pecorelle, nell’ immenso ovile della cristianità nord americana. Sotto la coperta di una fede cristiana che si estende rassicurante come in nessun’ altra nazione occidentale e avvolge genericamente il 75% dei cittadini, 230 milioni di anime e corpi che qui si professano credenti, le affiliazioni religiose cambiano con disinvoltura e senza grandi traumi. È una continua transumanza di cattolici che divengono episcopali, avventisti che si uniscono ai battisti, luterani che abbracciano Santa Romana Chiesa, con un fedele su due che cambia altare almeno una volta nella vita e uno su cinque che abbandona la fede nella quale fu allevato dai genitori prima di diventare adulto e compiere i 24 anni. Della cristianità nella prima grande nazione nella storia moderna che sancì il principio della libertà assoluta di religione e della separazione fra stato e chiese, conosciamo da anni l’ esplosione del fondamentalismo sudista cinicamente reclutato dai lupi della politica come blocco elettorale, l’ invenzione del tele-evangelismo e la crescita delle mega chiese che raccolgono in salmodianti happening decine di migliaia di fedeli in strutture da palazzo dello sport olimpico. Ma se gli Stati Uniti si vantano di essere la più grande «christian nation» della Terra, quando gli istituti di ricerca come il Pew di Washington, frugano nel gregge che si proclama cristiano, si scopre che il rapporto con gli intermediari e i rappresentati del Dio della Bibbia è molto più disinvolto e pragmatico di come lo raccontino i luoghi comuni. Gli americani fanno shopping religioso come fanno shopping tra partiti, candidati, automobili o detersivi, cercando la chiesa, il pastore, la confessione che meglio corrisponde ai loro desideri. Se la fede è un dono, la fede americana è un dono nel quale i compratori guardano bene dentro e che restituiscono facilmente al fornitore in cambio di un’ altra, comei regali di Natale il giorno di Santo Stefano. Il 44% di chi si professa cristiano, appartiene a una confessione diversa da quella appresa da bambino. Due terzi di coloro che furono cresciuti come Cattolici o come Protestanti confessano di essere saltati da una parte all’ altra dello steccato riformista o controriformista almeno una volta, spesso facendo andata e ritorno. Per delusione verso la fede ereditata, per comodità di culto soprattutto nelle regioni dove raggiungere una chiesa comporta viaggi di ore, per assecondare e seguire un coniuge che appartiene a un altro ovile. Moltissimi, il 50% dei convertiti ad altre confessioni, e il 70% degli ex cattolici divenuti protestanti, ammettono che la loro fede «non gli piaceva più». E’ dunque un Dio su misura, un cristianesimo molto “pret-a-porter” quello che i 113 milioni di americani che frequentano regolarmente una chiesa (o una sinagoga, o una moschea, o un tempio buddista) cercano, spesso insofferenti della rigidità dottrinale. Se i cattolici romani restano la prima confessione organizzata per numero di aderenti, 66 milioni in 19 mila chiese, per il 23% della popolazione, meno dei protestanti, che sono il 51% ma divisi in dozzine di denominazioni, sono proprio loro quelli che più soffrono e pagano per il dogmatismo centralistico della Chiesa di Roma. Gli apostati cattolici citano i temi classici e dolorosi della controversia cattolica, l’ aborto, l’ omosessualità, il sesso prematrimoniale, l’ incomprensibile nyet alla contraccezione, l’ offensiva esclusione delle donne dal sacerdozio, il celibato imposto ai preti, come cause della loro disaffezione e del loro distacco dalla Gran Madre. Il 2,5% dei 66 milioni ha lasciato il cattolicesimo scosso dall’ orrore dei preti pedofili e, soprattutto, dal comportamento pilatesco della gerarchia verso i colpevoli. Il numero di aderenti alla Chiesa di Roma rimane stabile soltanto grazie alle trasfusioni di immigrati dalle comunità e nazioni cattoliche a sud della frontiera, ora che l’ Europa non fornisce più le legioni devote che fecero di città come Boston o Baltimora bastioni del cattolicesimo. Sui documenti e sulle cifre delle ricerche demografiche, l’ America, nella quale il 90% proclama di credere comunque in un “Ente” soprannaturale, sia esso il Dio degli Zoroastriani o l’ Allah del Corano che conta 6 milioni di seguaci, rimane una nazione incomparabilmente religiosa rispetto all’ Europa scristianizzata e laicizzata: nel giorno del Signore, alla domenica per i cristiani, il 41% degli abitanti si mette i vestiti della festa e si trascina in una chiesa, contro il 14% dei francesi e il 6% degli svedesi. E per quanto ambigui e contraddittori siano i simboli stampati su quelle banconote che mescolano allusioni evidenti alla Massoneria, alla quale appartenevano tanti dei Padri Fondatori nel ‘ 700, alla promessa del “Noi confidiamo in Dio” appiccicata dal presidente Eisenhower nel XX secolo, nessun altra nazione occidentale oserebbe stampare il nome di Dio sulla propria moneta. Ma l’ incessante turnover di fedeli fra una confessione e l’ altra segnala che anche in materia di religione, gli americani tendono a credere più in Dio che nei preti, a differenza di altri cristiani più opportunisti. E ad applicare anche alla religione il principio fondante della loro nazione, che non è la Bibbia, ma è la libertà di scelta individuale che pure il cristianesimo proclama e che il cattolicesimo papista spesso teme. – VITTORIO ZUCCONI
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