In their first meeting as heads of state at the White House, Barack Obama tells Benjamin Netanyahu that the Middle East and Israel are on the verge of a historical opportunity for peace.
Translated from the diplomatic language, the language of lies and diplomatic euphemisms, this statement means that this train set in motion by Obama will be the last of the night before any hypothesis of peace will fade away for generations of new Israeli and Arabic bloodshed.
If it’s easy to think and invoke peace when you’re 9,400 km from Jerusalem or Gaza, rather than under the rain of Hamas’ rockets or under the daily spread of illegal Israeli settlements, this first taste of a never-ending tragedy has had the taste of desperation for Obama.
Netanyahu’s answer, who became prime minister after holding an electoral campaign to the thesis “two countries, two states” with radical hatred, was predictable; we might call it ritual for someone who could never have denied his electoral platform, and the ideas of his most important ally, that of Foreign Affairs Minister Avigdor Lieberman, who publicly announced a directional shift and renounced the agreements reached at Annapolis in 2007. Two years ago, at the end of that meeting sponsored by George Bush and held by Condoleeza Rice against the skepticism of Arabic countries, all the parties finally recognized Israel as the country of Jewish people, and Olmert’s Jewish government formally accepted the two-state solution. That was what Netanyahu refused to sign yesterday, claiming that it hadn’t been ratified by the Knesset, the Jerusalem Parliament.
Barack Obama is trying to make a new start from ground zero, from the crater opened by the double failure of the military option wanted by Bush and the theorists of the Iraq regime change that should have caused a virtuous cascade effect in Palestine, too; he’s trying to start all over again from the violent retaliation of Israel against Hamas’ attacks in Gaza during Operation Cast Lead. He hopes – and most people call him naïve – that his mediation skills, the strength of his charisma, the significance of a new American season can shift the boulder against whom all American presidencies have shattered. Obama believes in the decisive force of dialogue and persuasion, and made the “mystic of the table,” as we say in Italy, the philosophical stone of his message; for him, the Middle East has the potential for a sensational success, as well for an historical failure at the same time.
That’s why, after the initial castling of “Bibi the Tough,” the undisputed idol of the hawks in the Israeli-American community who condition so many governments, Obama will see Egyptian President Hosni Mubarak over the next few days; he’s the leader and president of what is now called “the half-Palestine,” cut into two pieces by Hamas in Gaza, and crumbled daily by those fortified Israelis villages that even yesterday, while “Bibi” was in the Oval Office, have seen in the alleged Palestine the opening of another yard in the place of a military camp, according to a project already approved in 2008.
Obama’s hope (the same expressed by the first Netanyahu government between 1996 and 1999) is that this narrow-minded and challenging attitude towards public international opinion, and that the American government itself – that consider this last one, as well as the others, an illegal settlement – is just an exchange pawn. A move to divert the attention of the most intolerant Israelis right-wing (the one represented by Lieberman) from the return to that road map towards peace that Israelis say they want to respect. The optimists remember that this is a classic political expedient: to use an ideological coverage to hide rational choices, like the fierce anti-communist Nixon did when he recognized China, or like Reagan who first preached against the Evil Empire of the Soviet Union, and then became the gentle interlocutor of the last red emperor, Mikhail Gorbachev. The pessimists, or the optimists who don’t suffer from amnesia, instead keep asking the question against whom all the hopes for a just and definitive solution in the Middle East have shattered over the past 60 years: Who is really interested in peace, besides those who live in the Gaza ghetto or in the small West Bank? Are the people who do look forward for peace the ones who don’t really matter in the rich game of war?
Repubblica — 19 maggio 2009 pagina 1 sezione: PRIMA PAGINA
WASHINGTON IL MEDIO Oriente, e Israele, «sono di fronte a una storica occasione di pace», dice Barack Okama a Benjamin Netanyahu nel loro primo incontro da capi di governo alla Casa Bianca. Tradotto dal «diplomatese», la lingua delle menzogne e degli eufemismi diplomatici, la frase significa che questo, avviatoa spinta da Obama, sarà l' utimo treno della notte, prima che ogni ipotesi di pace svanisca per generazioni in nuovi bagni di sangue ebreo e arabo. Se è certamente sempre più facile pensare e invocare la pace stando a novemila e 400 chilometri da Gerusalemme o da Gaza, piuttosto che sotto la pioggia dei razzi di Hamas o sotto la quotidiana moltiplicazione di insediamenti ebraici illegali, questo primo assaggio di una tragedia continua ha avuto, per Obama, il sapore della disperazione. La risposta di Netanyahu, divenuto primo ministro dopo una campagna elettorale condotta nell' avversione radicale alla tesi dei «due popoli, due Stati» è stata prevedibile, si potrebbe dire rituale per chi non poteva certo rinnegare la propria piattaforma elettorale e le tesi del suo principale alleato, quel ministro degli Esteri Avigdor Lieberman che ha pubblicamente annunciato il «cambiamento di rotta» e la rinuncia agli accordi raggiunti ad Annapolis nel 2007. Fu al termine di quell' incontro di due anni or sono, sponsorizzato da George Bush e guidato da Condoleezza Rice, contro lo scetticismo dei paese arabi, che tutte le parti riconobbero finalmente «Israele come la patria del popolo ebraico» e il governo israeliano di Olmert accettò formalmente la soluzione dei «due Stati». Quella che ieri Netanyahu ha rifiutato di sottoscrivere, giustificandosi con la mancata ratifica da parte della Knesset, del parlamento di Gerusalemme. Dal «ground zero», dal cratere aperto dal doppio fallimento della opzione militare voluta da Bush e dai suoi teorici del cambio di regime in Iraq che avrebbe dovuto produrre un effetto virtuoso a cascata anche in Palestina e poi dalla violenta rappresaglia israeliana contro gli attacchi di Hamas, a Gaza nella operazione «Piombo Fuso», cerca di ripartire Barack Obama nella speranza, per molti ingenua, che la sua mediazione, la forza del suo carisma, il senso di una nuova stagione americana possano smuovere il macigno contro il quale si sono infrante tutte le presidenze americane. Per lui, che crede nella forza risolutiva del dialogo e della affabulazione, che ha fatto della mistica del «tavolo», come si direbbe nel gergo italiano, la pietra filosofale del proprio messaggio, il Medio Oriente rappresenta insieme la possibilità del successo più sensazionale come quella del fallimento più, appunto, «storico». Per questo, dopo l' iniziale e scontato, arroccamento di «Bibi il Duro», idolo indiscusso dei falchi nella comunità israelita americana che tanto condiziona i governi, riceverà nei prossimi giorni il presidente egiziano Hosni Mubarak, il leader egiziano e il presidente di quella che ormai è la «mezza Palestina» tagliata in due da Hamas a Gaza e sminuzzata quotidianamente da quei villaggi fortificati israeliani che anche ieri, mentre «Bibi» era nello Studio Ovale, hanno visto l' apertura di un altro cantiere nella presunta Palestina al posto di un campo militare, secondo un progetto già approvato nel 2008. La speranza di Obama, la stessa che già era stata espressa con il primo governo Netanyahu fra il 96 e il ' 99 è che questi atteggiamenti di chiusura e di sfida all' opinione pubblica internazionale e allo stesso governo americano che considera quest' ultimo, come molti altri, «insediamenti illegali», siano pedine di scambio. Che siano mosse fatte per coprire agli occhi della destra israeliana più intransigente come quella rappresentata da Lieberman il ritorno a quella «road map» mappa stradale verso la pace che Israele dice di voler rispettare. Gli ottimisti ricordano che è un classico della politica questo gioco di copertura ideologica fatto per coprire scelte razionali, come lo fu per il Nixon feroce anticomunista che riconobbe la Cinao per il Reagan predicatore contro l' Impero del Male sovietico, poi divenuto il cordiale interlocutore dell' ultimo imperatore rosso, Mikhail Gorbaciov. I pessimisti, o gli ottimisti non sofferenti di amnesia, continuano invece a porsi la domanda contro la quale si sono infrante in 60 anni tutte le speranze di soluzione giusta e definitiva in Medio Oriente: chi ha davvero interesse a fare la pace, oltre a coloro che, nel ghetto di Gaza o nello spezzatino della Cisgordiana, sono quelli che contano di meno, nella ricca partita della guerra? - VITTORIO ZUCCONI
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