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Repubblica — 19 maggio 2009 pagina 1 sezione: PRIMA PAGINA

WASHINGTON IL MEDIO Oriente, e Israele, «sono di fronte a una storica occasione di pace», dice Barack Okama a Benjamin Netanyahu nel loro primo incontro da capi di governo alla Casa Bianca. Tradotto dal «diplomatese», la lingua delle menzogne e degli eufemismi diplomatici, la frase significa che questo, avviatoa spinta da Obama, sarà l’ utimo treno della notte, prima che ogni ipotesi di pace svanisca per generazioni in nuovi bagni di sangue ebreo e arabo. Se è certamente sempre più facile pensare e invocare la pace stando a novemila e 400 chilometri da Gerusalemme o da Gaza, piuttosto che sotto la pioggia dei razzi di Hamas o sotto la quotidiana moltiplicazione di insediamenti ebraici illegali, questo primo assaggio di una tragedia continua ha avuto, per Obama, il sapore della disperazione. La risposta di Netanyahu, divenuto primo ministro dopo una campagna elettorale condotta nell’ avversione radicale alla tesi dei «due popoli, due Stati» è stata prevedibile, si potrebbe dire rituale per chi non poteva certo rinnegare la propria piattaforma elettorale e le tesi del suo principale alleato, quel ministro degli Esteri Avigdor Lieberman che ha pubblicamente annunciato il «cambiamento di rotta» e la rinuncia agli accordi raggiunti ad Annapolis nel 2007. Fu al termine di quell’ incontro di due anni or sono, sponsorizzato da George Bush e guidato da Condoleezza Rice, contro lo scetticismo dei paese arabi, che tutte le parti riconobbero finalmente «Israele come la patria del popolo ebraico» e il governo israeliano di Olmert accettò formalmente la soluzione dei «due Stati». Quella che ieri Netanyahu ha rifiutato di sottoscrivere, giustificandosi con la mancata ratifica da parte della Knesset, del parlamento di Gerusalemme. Dal «ground zero», dal cratere aperto dal doppio fallimento della opzione militare voluta da Bush e dai suoi teorici del cambio di regime in Iraq che avrebbe dovuto produrre un effetto virtuoso a cascata anche in Palestina e poi dalla violenta rappresaglia israeliana contro gli attacchi di Hamas, a Gaza nella operazione «Piombo Fuso», cerca di ripartire Barack Obama nella speranza, per molti ingenua, che la sua mediazione, la forza del suo carisma, il senso di una nuova stagione americana possano smuovere il macigno contro il quale si sono infrante tutte le presidenze americane. Per lui, che crede nella forza risolutiva del dialogo e della affabulazione, che ha fatto della mistica del «tavolo», come si direbbe nel gergo italiano, la pietra filosofale del proprio messaggio, il Medio Oriente rappresenta insieme la possibilità del successo più sensazionale come quella del fallimento più, appunto, «storico». Per questo, dopo l’ iniziale e scontato, arroccamento di «Bibi il Duro», idolo indiscusso dei falchi nella comunità israelita americana che tanto condiziona i governi, riceverà nei prossimi giorni il presidente egiziano Hosni Mubarak, il leader egiziano e il presidente di quella che ormai è la «mezza Palestina» tagliata in due da Hamas a Gaza e sminuzzata quotidianamente da quei villaggi fortificati israeliani che anche ieri, mentre «Bibi» era nello Studio Ovale, hanno visto l’ apertura di un altro cantiere nella presunta Palestina al posto di un campo militare, secondo un progetto già approvato nel 2008. La speranza di Obama, la stessa che già era stata espressa con il primo governo Netanyahu fra il 96 e il ‘ 99 è che questi atteggiamenti di chiusura e di sfida all’ opinione pubblica internazionale e allo stesso governo americano che considera quest’ ultimo, come molti altri, «insediamenti illegali», siano pedine di scambio. Che siano mosse fatte per coprire agli occhi della destra israeliana più intransigente come quella rappresentata da Lieberman il ritorno a quella «road map» mappa stradale verso la pace che Israele dice di voler rispettare. Gli ottimisti ricordano che è un classico della politica questo gioco di copertura ideologica fatto per coprire scelte razionali, come lo fu per il Nixon feroce anticomunista che riconobbe la Cinao per il Reagan predicatore contro l’ Impero del Male sovietico, poi divenuto il cordiale interlocutore dell’ ultimo imperatore rosso, Mikhail Gorbaciov. I pessimisti, o gli ottimisti non sofferenti di amnesia, continuano invece a porsi la domanda contro la quale si sono infrante in 60 anni tutte le speranze di soluzione giusta e definitiva in Medio Oriente: chi ha davvero interesse a fare la pace, oltre a coloro che, nel ghetto di Gaza o nello spezzatino della Cisgordiana, sono quelli che contano di meno, nella ricca partita della guerra? – VITTORIO ZUCCONI

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