If Obama Goes to Mohammed

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Non sappiamo ancora cosa dirà. Ma sappiamo dove lo dirà. Il che, secondo le regole della politica odierna, è quasi quanto basta. Barak Obama parlerà domani al mondo musulmano dall’Aula Magna dell’Università del Cairo, dove si presenta dopo aver reso omaggio ai custodi della Mecca, i reali della casa saudita, a Riad. Lo seguirà un’opinione pubblica musulmana che non ha mai guardato con tanto favore a un leader occidentale: lo approva il 25 per cento degli egiziani (contro il 6 a favore di Bush).

Lo approva il 29 per cento dei sauditi (per Bush il 12), il 37 per cento dei turchi (per Bush il 14), il 15 per cento dei siriani (per Bush il 4). È una dislocazione geografica e di umori sufficiente a farci dire che qualcosa già è accaduto nelle relazioni fra Stati Uniti e mondo arabo.

Obama terrà domani al Cairo il quarto discorso di politica estera della sua presidenza. Ognuno di questi interventi è stato fatto in un luogo intimamente connesso al senso del messaggio. Il primo, sul ritiro dall’Iraq, il 27 febbraio, è stato pronunciato nel campo di addestramento dei marines di Camp Lejeune, in North Carolina, davanti a uomini e donne che stavano per partire per le basi di Baghdad. E cominciava: «Sono venuto a parlarvi di come la guerra in Iraq finirà». Il secondo, del 5 aprile, forse il più visionario, su un mondo privo di armi nucleari, è stato pronunciato a Praga, già ponte della Guerra fredda fra Est e Ovest. Che si riferisse a quell’epoca, Obama l’ha lasciato capire da un romantico omaggio alla moglie: «Sono l’uomo che accompagna Michelle», parafrasando John e Jackie Kennedy del viaggio europeo nel 1961. Il terzo discorso, del 21 maggio, sulla sicurezza nazionale, ha annunciato la chiusura di Guantanamo, ed era ai National Archives di Washington, tempio in cui è custodita la storia della Repubblica Usa.

Al Cairo si attende ora un altro segmento della visione strategica dei nuovi Stati Uniti. Gli inviti alla cautela degli esperti, in questa vigilia, sono numerosi. Fortissime le resistenze in Israele e in una parte dello stesso mondo democratico americano contro le pressioni dell’amministrazione per fermare gli insediamenti. Problematica, a dir poco, è nel mondo arabo ogni soluzione (fosse anche quella – impossibile – dei due Stati) che implichi il pieno riconoscimento di Israele. Sullo sfondo c’è, poi, il ruolo attivo che Obama ha preso nel rilanciare in Afghanistan quella che ogni giorno appare sempre più come una nuova guerra ai talebani. Viceversa, le aperture all’Iran e la chiusura di Guantanamo sono, per ora, più gesti di buona volontà che impegni. Eppure, contro ogni voce della ragione, di cui sempre abbondano diplomatici ed esperti, il luogo scelto dal presidente per parlare ai musulmani appare già un’offerta in sé.

I Presidenti americani viaggiano molto. Attraversano il globo in lungo e in largo. Ma i colloqui veri, gli accordi finali, le amicizie strategiche si stringono solo a Washington. Come avvenne per l’accordo di una pace da Nobel fra Arafat e Rabin nel 1993. Come avviene per tutti i leader mondiali oggi in palpitante attesa di un invito alla Casa Bianca. Il mondo imperiale è infatti una piramide, dove la legittimazione dei Barbari non può che avvenire nella Nuova Roma.

Stavolta questa piramide si capovolge. Obama parla ai musulmani lì dove i musulmani vivono, parla alle madrasse dell’universo arabo da una grande università araba, porta sé stesso al loro livello e nei loro luoghi, pellegrino fra i pellegrini, dove il conflitto è nato. L’Egitto, ricordiamolo, è la patria del fondamentalismo islamico, il paese che ha dato i natali agli uomini più vicini a Osama Bin Laden. Nonché il punto di equilibrio, quieto ma pericolosamente ancora in bilico, tra Occidente e Oriente. È difficile dunque non vedere in questa scelta del Presidente degli Stati Uniti un desiderio di spaccare i ruoli, riscrivere le regole, riconoscere e non umiliare le diversità. In un’epoca di conflitti fatti da immagini, valori, disprezzi reali e percepiti, in un mondo in cui i rapporti fra culture pesano quanto una volta i rapporti fra testate nucleari, un gesto di modestia e di omaggio può fare molta strada.

Non è un’idea nuova quella di Obama. I migliori strateghi e politici hanno vinto guerre con il riconoscimento delle differenze altrui. Il generale Edmund Henry Hynman Allenby, primo visconte Allenby, dopo aver sconfitto l’Impero Ottomano in Palestina, facendo il suo ingresso a Gerusalemme alla testa delle truppe, l’11 dicembre 1917, smontò da cavallo e attraversò a piedi la Porta di Jaffa, «in segno di rispetto dello status di città sacra per ebrei, cattolici e musulmani». Poco importa se, con il senno di poi, oggi diciamo che quel gesto di rispetto sarebbe stato pagato molto caro da Gerusalemme. In quel momento bastò a trasformare una potenza di conquista in un protettore per molti anni. Forse la visita di Obama in Medio Oriente non sarà risolutiva. Ma ciò non toglie che, recandosi al Cairo, oggi Obama scriva una forte pagina culturale, rendendo reale la metafora dell’impossibilità: per la prima volta vedremo la montagna che va da Maometto.

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