The Crisis Is Not Over

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I problemi che l’hanno generata non sono ancora risolti. E Germania e Italia faticheranno di più del previsto per uscirne

Manifestazione a Roma dei disoccupati Complici le massicce iniezioni di ottimismo che il presidente Obama somministra quotidianamente coi suoi discorsi al Paese, negli Stati Uniti la speranza che la crisi sia finita si va diffondendo sempre più.

Il mercato azionario, cresciuto del 39 per cento dai minimi di marzo, sembra confermarlo. Perfino la notizia che nel mese di maggio la disoccupazione è salita al 9,4 per cento è stata presa come un segnale positivo. Sono stati persi solo 345 mila posti di lavoro contro i 500 mila dei mesi precedenti, un segno – si dice – che siamo vicini a toccare il fondo e che la ripresa è dietro l’angolo. Ma siamo veramente alla fine del tunnel?

Parafrasando una frase di Badoglio, tristemente famosa, potremmo rispondere che la crisi è finita, ma la crisi continua.

È finita la fase più acuta della crisi finanziaria. Grazie a massicci (e costosi) interventi statali nel settore del credito, il sistema finanziario si è stabilizzato: i depositanti non temono più il crollo delle principali banche e il mercato del credito interbancario è ritornato ai livelli pre fallimento di Lehman. Perfino il rialzo dei tassi di interesse sui titoli di stato a lungo è un segno positivo: i risparmiatori non fuggono più verso i titoli del Tesoro americano identificati come un bene rifugio.

Svanita la paura di un totale collasso finanziario, si sta affermando la consapevolezza che non siamo nella Grande Depressione e che il sistema economico si riprenderà.

La crisi sembra anche finita per i principali paesi in via di sviluppo. La Cina, intervenuta rilanciando la spesa pubblica, è prevista crescere del 6,5 per cento quest’anno, mentre l’India del 4,5 per cento.

Ma allora perché la crisi continua? Perché nel frattempo nessuno dei problemi che hanno causato la crisi è stato risolto. Restano i problemi nel settore finanziario. Nonostante gli aumenti di capitale, il sistema bancario americano rimane sottocapitalizzato e quindi restio a concedere quei prestiti a consumatori ed imprese che sarebbero essenziali per far ripartire l’economia. La discesa dei prezzi delle case non si è fermata né si sono arrestati i pignoramenti delle case di coloro che non sono in grado di pagare i loro mutui.

Ed il processo di cartolarizzazione, che prima della crisi forniva la maggioranza del credito, non è assolutamente ripartito, nonostante i forti sussidi statali.

In questo contesto risulta difficile immaginare una stabile ripresa economica. Tanto più che rimangono da risolvere anche gli squilibri nel mondo reale che molto hanno contribuito alla crisi. Prima della crisi gli americani consumavano troppo: il 100 per cento del loro reddito contro il 90 per cento delle altre nazioni progredite. Questo eccesso di consumo, finanziato con mutui sugli immobili, rappresentava un’importante fonte di domanda per gli altri paesi (Italia inclusa).

Questa componente non pare ritornata. Anzi, non tornerà proprio. Gli Stati Uniti devono risparmiare di più. Lo hanno già cominciato a fare e non c’è ragione per cui questa tendenza debba invertirsi. Questo significa che gli altri paesi devono trovare nuovi sbocchi per i propri prodotti, un compito fattibile, ma che richiede tempo.

L’aumento della spesa pubblica in Cina non basta a sostenere la domanda in America. E se l’America non ride, l’Europa piange. Forse l’impatto iniziale della crisi è stato sentito meno nel Vecchio continente. In parte perché la crisi è nata negli Stati Uniti, dove si sono verificati i principali fallimenti bancari e non. In parte perché l’Europa ha un mercato del lavoro più rigido, dove i licenziamenti non avvengono immediatamente.

Ma il crollo del commercio internazionale ha colpito maggiormente paesi esportatori come la Germania e l’Italia. Mentre per gli Stati Uniti il Fondo monetario internazionale prevede un prodotto interno lordo piatto per il 2010 dopo una caduta del 2,8 per cento nel 2009, per la Germania si stima un calo dell’1 per cento nel 2010 dopo un meno 5,6 per cento nel 2009. Per l’Italia viene prevista una riduzione del Pil dello 0,4 per cento nel 2010 dopo un meno 4,4 per cento nel 2009.

Esternalizzando la loro produzione industriale in altri paesi gli Stati Uniti sono riusciti a esportare la loro crisi nel resto del mondo.

Purtroppo in Italia questa crisi si è sovrapposta a una debolezza strutturale che dura ormai da un quindicennio. Il progresso economico dei paesi emergenti ha ridotto il nostro vantaggio competitivo nei prodotti a basso valore aggiunto, mentre le carenze del nostro sistema scolastico rendono difficile competere nei settori ad alta tecnologia (e valore aggiunto).

La crisi internazionale non può che accentuare queste nostre debolezze. Il rischio di una Grande Depressione è svanito, ma la nostra crisi continua.

(12 giugno 2009)

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