The Dilemma of the West

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Ciò che è accaduto ha tutta l’aria di essere un salto di qualità irreversibile nel conflitto che oppone l’ala dura del regime iraniano ai riformisti. La manifestazione non autorizzata degli oppositori è stata affrontata con la violenza dagli apparati repressivi. Un attentatore kamikaze si è contemporaneamente fatto esplodere presso il mausoleo di Khomeini (e si tratta, come ognun capisce, di un fatto di grande impatto simbolico). Soprattutto, Mousavi, il candidato sconfitto alle elezioni per la Presidenza, si è ribellato apertamente alla Guida Suprema Khamenei, è sceso in piazza con gli oppositori, si è dichiarato pronto a morire e ha chiesto l’azzeramento delle elezioni («i brogli erano pianificati da mesi» ha detto). Non sappiamo come finirà questa prova di forza, anche se al momento le carte migliori (gli apparati della forza, le milizie armate) sembrano essere saldamente nelle mani di Khamenei e di Ahmadinejad. Sappiamo però che il mondo occidentale deve ora fronteggiare un terribile dilemma.

Prima che arrivassero le nuove notizie sulla prova di forza in atto a Teheran, le difficoltà di fronte a cui si trova l’Occidente erano ben illustrate da una apparente contraddizione. Nello stesso momento in cui l’Unione Europea (con fermezza) e l’Amministrazione Obama (con circospezione) condannavano i brogli elettorali e le violenze del regime contro gli oppositori, l’Italia confermava di avere invitato, in accordo con gli Stati Uniti, il ministro degli Esteri iraniano Mottaki a partecipare alla conferenza sull’Afghanistan che si terrà a Trieste, in occasione del G-8, dal 25 al 27 giugno. Cinica realpolitik?

No, la contraddizione era figlia di un dilemma autentico. Da un lato, c’è infatti la necessità di assicurarsi la collaborazione di una potenza regionale del peso dell’Iran per venire a capo della guerra in Afghanistan (e per stabilizzare l’Iraq). Dall’altro lato, c’è il fondato timore che l’evoluzione in atto in Iran, la scelta della Guida Suprema Khamenei di sostenere Ahmadinejad, e la possibile, definitiva, sconfitta delle componenti riformiste, possano irrigidire ulteriormente le posizioni internazionali del regime. Con gravissimi rischi per la pace.

Non c’è, al momento, molto che dall’esterno si possa fare per favorire un’ evoluzione della politica di Teheran che sia coerente con le aspirazioni di libertà di tanti iraniani e foriera di cambiamenti nella politica estera del regime. Anzi, come è illustrato dal dibattito americano (di cui il New York Times ha dato ieri un ampio resoconto) è anche possibile che un aperto sostegno occidentale, soprattutto americano, agli oppositori di Ahmadinejad e di Khamenei possa risultare controproducente, possa essere proprio ciò che serve all’ala dura del regime per gridare al complotto internazionale e sbarazzarsi con la violenza degli oppositori.

Ciò spiegherebbe, secondo questa interpretazione, la cautela diplomatica fin qui tenuta da Obama nonostante la netta presa di posizione, quasi unanime, del Congresso a favore degli oppositori scesi in piazza a Teheran. Se la situazione precipita è difficile che Obama possa mantenere a lungo la posizione prudente assunta. Se, come allo stato degli atti sembra probabile (ma c’è sempre, in questi frangenti, la possibilità di svolte repentine e imprevedibili), il regolamento di conti in atto mettesse completamente fuori gioco le componenti più moderate del regime, la politica estera iraniana diventerebbe ancora più pericolosa di come oggi è. Finora, gli estremismi di Ahmadinejad erano, a detta degli specialisti di politica iraniana, parzialmente frenati dalla necessità, per Khamenei, di tenere conto dell’equilibrio delle forze fra le diverse componenti del regime. Rotto quell’equilibrio, spostato definitivamente il baricentro verso l’ala dura, sarebbe difficile immaginare una politica estera iraniana meno aggressiva. Tanto più che i fallimenti economici interni richiederebbero, per essere nascosti, una escalation della conflittualità con il mondo esterno. Con ricadute sul conflitto israeliano-palestinese, sull’Iraq e su altri scacchieri. Nel suo discorso in Egitto di due settimane fa Obama ha proposto al mondo islamico di voltare pagina. Una parte di quel mondo ha accolto con favore l’invito. Ma un’altra parte no. Quel discorso, pur innovativo, aveva un punto debole. Che succede se gli «uomini di buona volontà» delle diverse civiltà e religioni non riescono a tenere sotto controllo i fanatici e i propagatori d’odio? L’universo politico (come scriveva il giurista Carl Schmitt) è in realtà un «pluriverso»: oltre che per le possibilità di compromesso lascia sempre spazio per differenze e odi irriducibili. Mentre si offre il dialogo occorre disporre anche di strategie alternative. E’ il tema di una discussione che appare assai serrata all’interno dell’Amministrazione americana. Se in Iran la situazione precipita, se la fazione di Ahmadinejad, sostenuta da Khamenei, si sbarazza, anche fisicamente, degli oppositori, Obama dovrà presto dotarsi di qualche carta di riserva.

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