Where Exactly Is He Taking Us?

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Barack Obama si è presentato al mondo con l’idea di cambiare radicalmente l’approccio di politica estera del predecessore George W. Bush. Circondato da consiglieri realisti, cioè appartenenti alla scuola di politica estera tradizionalmente vicina alla destra repubblicana, Obama ha vinto le presidenziali, ma anche le primarie dentro il suo partito, promettendo che alla Casa Bianca avrebbe parlato con tutti i nemici degli Stati Uniti e senza precondizioni, convinto che se avesse offerto loro la mano del dialogo, questi avrebbero smesso di serrare il pugno. Per sottolineare il distacco da Bush, da presidente ha deciso di ritirarsi dall’Iraq, di chiudere Guantanamo e di non usare più i toni forti da guerra al terrorismo.

La nuova strategia obamiana non poteva essere più irrealistica, come si sta accorgendo lui stesso giorno dopo giorno. In Iraq ci rimane con almeno 50 mila soldati, e molti osservatori indipendenti temono che la generale sottovalutazione del dossier iracheno possa compromettere gli straordinari risultati ottenuti nell’ultimo anno di Bush. Guantanamo è ancora aperto e i giornali cominciano ad accorgersi che Obama invece che nella base di Cuba manda i nuovi prigionieri nel carcere di Bagram, in Afghanistan, dove non hanno alcun diritto e sono trattati decisamente peggio. L’Onu lo ha denunciato perché, al di là della retorica buonista, non riconosce ai detenuti i diritti processuali e li tiene in galera a tempo indeterminato.

Il mondo, inoltre, non si è affatto rasserenato. I cattivi non sono diventati buoni, non si sono commossi di fronte alla sua straordinaria epopea di giovane ragazzo di colore delle Hawaii. La Facebookpolitik, la politica estera del sorriso via YouTube, la strategia dell’hot dog e l’abbandono della dottrina del regime change non sono servite a convincere gli ayatollah iraniani. Eppure Obama ha tentato in tutti i modi, perseverando anche quando gli ayatollah l’hanno accusato di essere come Bush, anche quando non hanno risposto agli inviti per le celebrazioni del 4 luglio, anche dopo la truffa elettorale e i primi dieci giorni di proteste e violenze a Teheran. Nel frattempo la Corea del nord ha testato un’arma nucleare, ha lanciato un paio di missili e si prepara a inviarne un altro in direzione Hawaii ai primi di luglio. Tutto questo mentre gli alleati europei e mediorientali rumoreggiano con la Casa Bianca. Gli europei si sentono trattati con sufficienza, gli israeliani temono di non essere più protetti, gli arabi sono terrorizzati dall’idea obamiana secondo cui si possa convivere con un Iran nucleare. E’ ancora troppo presto fare un bilancio della politica estera di Obama, anche perché il presidente è uomo duttile e disinvolto, tanto da aver già dimostrato di essere capace di cambiare in corsa le sue convizioni.

Ora è pronto al peggio con la Corea, a cui ha detto che è finito il tempo in cui l’America offre soldi, aiuti e accordi in cambio della rinuncia al nucleare. Ci sono voluti undici giorni, ma infine s’è reso conto che non è possibile fare business con gli ayatollah. In Pakistan non è mai andato molto per il sottile, anzi ha già bombardato una ventina di volte, l’ultima un paio di giorni fa su un funerale (83 morti). Ma sono segnali contraddittori. Ci sono frenate e accelerazioni. La dottrina Bush poteva piacere o no, ma forniva una visione del mondo chiara (anche se mai chiarissima quanto quella di Reagan: “We win, they lose”, noi vinciamo, loro perdono). La visione del mondo di Obama ancora non c’è, a meno che la sua dottrina consista proprio nel non averne nessuna.

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