The American Friend

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CON la forza che la sua figura sprigiona, e con il prestigio ineguagliato della nazione che rappresenta, Barack Obama ha detto all’Italia che al tavolo dei Paesi che aspirano alla guida del mondo, un posto per noi c’è ancora e deve esserci. Questo è il risultato vero che il nostro Paese, il governo Berlusconi e i futuri governi italiani, incassano nel primo giorno decisivo del G8 e che l’Italia può riporre in cassaforte come un capitale che potrà essere speso nei quattro, od otto anni, nei quali Barack Obama resterà presidente.

Non c’era dunque bisogno che il “New York Times” gli chiedesse ieri di prendere il timone di questa edizione del G8, perché dal momento in cui ha messo piede in Italia si è visto benissimo chi sia il sole attorno al quale ruota il sistema che noi definiamo “occidentale” e che il resto del mondo accetta o subisce. Per ora compresa anche quella Cina che, nella partenza affannosa del suo presidente Hu Jintao, l’assente giustificato, ha mostrato che sulla propria stupenda crescita industriale e finanziaria ancora pesa, come aveva ricordato garbatamente il presidente Napolitano, quella vulnerabilità e incompiutezza civile che ne limita la capacità di leadership internazionale.

Se il G8 in sé, come istituzione, è da tempo un organismo incurabilmente obsoleto che non può essere ringiovanito neppure suonandolo come una fisarmonica che si allarga e si restringe, le polemiche sulle “agende”, sul lavoro dei portatori di carta, i cosiddetti “sherpa” che sfornano i documenti annunciati non cambiano il fatto essenziale: dal momento che esso esiste, e in attesa che qualcosa di meno ingombrante e macchinoso venga creato, è meglio stare dentro, piuttosto che starne fuori.

E per i più piccoli fra i grandi, come l’Italia, è doppiamente necessario parteciparvi, con dignità e con eleganza, senza esporci al sarcasmo di chi – si deve ricordarlo – come gli Inglesi e i Francesi, dovette essere persuaso molto a fatica dal presidente Gerald Ford nel 1975 ad aggiungere un posto a tavola anche per Aldo Moro, il nostro premier di allora, al Gruppo.

Non ci sono stati risultati a sorpresa, non ci sono mai in questi vertici, sul clima, sull’Iran, neppure sul governo dell’economia mondiale che ricalca – anche in questo caso – quel ritorno a una ragionevole “regulation” e alla supervisione pubblica già espresso in altri incontri e presentato in anticipo da Obama nelle sue proposte al Congresso per riordinare il mercato finanziario e dare alla banca centrale, alla Fed, poteri disciplinari severi. Il tempo dei cavalli sfrenati è finito, dall’autunno di Bush.

C’è stata invece la conferma, importantissima in questo momento burrascoso, della scelta classica di ogni amministrazione americana dopo la Seconda guerra, di guardare oltre i venti della politica italiana e di sostenere il governo che comunque gli italiani si scelgono, senza sindacare, senza intervenire pubblicamente. Domandando in cambio, come ha detto Obama elogiando il presidente Napolitano con questo solenne complimento, “integrità”, da parte di chi guida le nazioni che vogliono restare socie del club delle democrazie.

Un atteggiamento classico e collaudato che ieri ha permesso a Obama di offrire il proprio ringraziamento a Silvio Berlusconi, a colui che oggi ci rappresenta, e al premier italiano di incassarlo dal successore di quel Bush nei confronti del quale si era molto esposto. Ma gli Usa non serbano rancori né fanno questioni personali, perché le nazioni, come ricordava il primo ministro inglese Lord Palmerston, “non hanno amici permanenti, hanno interessi permanenti”. E’ nel loro, come nel nostro interesse, mantenere forte, e soprattutto stabile, il rapporto fra Mosca e Washington, come in questa prima giornata il G8 ha fatto, nella tradizionale “convergenza di vedute”.

Il senso che in questa stanca istituzione informale chiamata G8 sono gli Stati Uniti a restare il perno della ruota, è stato particolarmente forte in questa edizione 2009. Lo è stato perché ha visto l’esordio di un Presidente americano atteso come dai tempi di Ronald Reagan a Venezia nel 1981 non accadeva più.

La immensa – e reale – popolarità internazionale di Obama, la sua trionfale vittoria elettorale che gli ha dato quella sicura legittimità che non ebbero mai Clinton, stentato vincitore di maggioranza relativa nel 1992 e certamente non Bush Secondo, arrivato al primo G8 del 2001 sull’onda di un’elezione scandalosa, ne fa il “leader dei leader”.

Al privilegio di essere la guida di quella nazione dalla quale passano ancora le arterie della finanza, che dispiega armati in guerre o in basi in ogni continente, di essere colui che dovrà convincere anche le nuove potenze industriali come India e Cina a domare il loro desiderio di sviluppo sfrenato dimostrando che l’America per prima ha capito il rapporto fra crescita e ambiente, Obama aggiunge l’asso della propria storia politica e della propria personalità. Quella diversità che ha interrotto, nella foto di famiglia degli G8 scattata ieri, la monotonia etnica e culturale di uomini e donne tutti figli dello stesso dna europeo, come finora soltanto ai premier giapponesi spettava di fare.

Se ancora l’Africa non c’è, in quel gruppo che coagula il 50% della ricchezza mondiale e presto l’80%, con l’inclusione di India e Cina, Barack Obama è almeno il segnale che la multirazzialità, e la multiculturalità sono il presente del mondo, anche di quello che crede di potersi chiamare fuori dalla storia.

E’ assai probabile che, come ormai accade da anni, le solenni affermazioni e le risoluzioni sfornate all’Aquila saranno purtroppo dimenticate appena l’ultimo studio mobile televisivo sarà stato smantellato, come il tradimento degli impegni a favore delle nazioni povere ha tristemente provato.

Ma il volto dei “grandi del mondo” è cambiato per sempre, grazie a Obama, alla signora Michelle nel suo smagliante abito giallo, e cambierà ancor di più nei prossimi anni, quando anche questo club esclusivo dovrà fare quello che gli Stati Uniti hanno già fatto nel novembre del 2008: ammettere che esso somiglia sempre meno al mondo che pretende di pilotare. E che per tornare a essere credibile deve finalmente somigliare all’umanità che vuole rappresentare, come questo G8, il primo “summit multietnico” della storia dei paesi ricchi.

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