Farewell Cronkite, Voice of America

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WASHINGTON «NON crederò che Walter Cronkite sia morto, fino a quando non lo annuncerà lui stesso», ha scritto un lettore al New York Times. Un pensiero che riassume tutto ciò che questo giornalista è stato, nella storia americana del XX secolo. DAL D-Day all’ elezione di Ronald Reagan: Cronkite è stato lo zio serio ma bonario che spiega ai nipotini il mondo com’ è, e non come loro vorrebbero che fosse. Non ci sarà mai più nessuno come “Uncle Walter”, come questo figlio di un dentista del Missouri, lo Stato che si vanta di essere il più scettico d’ America, ma cresciuto nel Texas, terra di passioni e di istinti, che per i cinquant’ anni della sua carriera conquistò il premio al quale ogni giornalista aspira e al quale ogni consumatore di notizie avrebbe diritto: la credibilità assoluta. La frase con la quale concludeva i 30 minuti del telegiornale della sera sulla Cbs, «and that’ s the way it is», e così stanno le cose, sarebbe suonata sulle labbra di chiunque altro come un insopportabile sbruffonata. Sulle sue, nascoste dietro baffi da tricheco buono ingrigiti sotto i riflettori senza trucco o lucidi di scarpe, c’ era una verità che milioni di americani accettava. Semplicemente, lo zio non mentiva. Per gli standard moderni, che chiedono agli “anchor” di telegiornali di essere intrattenitori, soubrette o polemisti, zio Walter era di insignificante aspetto e di modesti studi. Non era riuscito a laurearsi, nella University of Texas a Houston. Alle classi, preferiva lavoretti non pagati nel quotidiano locale, il Post. Il suo primo lavoro retribuito furono, come il coetaneo Reagan, radiocronache di football universitario e finte dirette di baseball. Aveva lavorato nella Londra martoriata dalla Luftwaffe, dalla quale ogni sera aveva parlato il maestroe archetipo di una generazione di corrisponenti, Ed Murrow, quello che poi George Clooney avrebbe cercato di riprodurre nel suo «Good night and good luck», buona notte e buona fortuna. Dalla carlinga di un bombardiere B17 aveva seguito lo sbarco in Normandia e quando la Cbs News lo aveva assunto, i colleghi anziani lo avevano bocciato come troppo «qualunque», senza quella che sarebbe poi stata chiamata la capacità di bucare il video. In quegli anni ‘ 50, la decade della prospera sonnolenza di Eisenhower, quella faccia da venditore di enciclopedie a rate, come lo aveva chiamato il rivale della Nbc, Huntley, sembrava una debolezza. Pochi anni più tardi, alle 14 del 22 novembre 1963, il viso da tutti e da nessuno, la voce profondae sincera, gli occhialoni spessi e montati in nero, furono esattamente quello di cui l’ America aveva bisogno, quando Walter Cronkite, inghiottendo le lacrime, annunciò che John F. Kennedy era stato ucciso. Non fu uno scoop, né fu l’ unico a dare la notizia, ma se oggi, 46 anni più tardi, si chiede agli americani da chi abbiano saputo che JFK era morto tutti, anche coloro che non erano sintonizzati sulla Cbs, risponderanno di averlo saputo da lui, da Cronkite, come se quella sua cronaca, letta in maniche di camicia dentro uno studio raffazzonato di telescriventi, monitor, fogli sparsi sui tavoli, redattori in agitazione sullo sfondo, fosse divenuta, nel tempo, l’ evento stesso. E Kennedy non fosse morto sotto i ferri dei chirurghi impotente, ma lì, nello studio di Walter Cronkite. Nacque un legame privato, umano, diretto, che il dramma continuo di quella decade ‘ 60, poi gli anni del Watergate, le guerre, le crisi economiche, la sequenza di omicidi politici, la catastrofe Indocinese avrebbero trasformato in un legame di famiglia. Con i momenti di dolore, ma anche di trionfo, come quello sbarco sulla Luna che lo entusiasmò e lo coinvolse come nessun altro. Curiosa coincidenza che sua morte, a 93 anni, proprio nel cinquantenario del «piccolo passo» di Armstrong. Per quanto amaro fosse il tempo, c’ era, alle 7 e mezza di ogni sera, Walter per rassicurare l’ America, senza «fear or favor», senza paura e senza piaggeria, per dire che almeno il fuocherello della libera informazione restava acceso. Nel 1973, l’ ora del Watergate,i sondaggi rivelarono che lui era l’ unica figura pubblica nella quale l’ America avesse fiducia. Si disse che fosse stato luia perdere la guerra in Vietnam quando tornò da un reportage al fronte dopo il ‘ 68 e annunciò senza enfasi, senza retorica, che la guerra non poteva essere vinta e il presidente Johnson, in privato, ammise: «Se Cronkite ha detto che abbiamo perso, abbiamo perso». Non ci sarebbe stato mai più nessuno, giornalista o politico, capace di interpretare, condizionare e sigillare lo «zeitgeist», lo spirito del tempo e purtroppo nessuno zio Walter che, dopo l’ 11 settembre, avrebbe potuto dire alla dirigenza politica di Bush che forse l’ avventura in Iraq non era una buona idea. Non lo permette più la polverizzazione dei media la ricorsa all’ audience con ogni mezzi improprio, nella quale oggi Cronkite farebbe la figura del Gulliver legato dai lillipuziani. La sue Cbs News alle 7.30, attiravano, negli anni 70, un americano su tre, di ogni generazione e di ogni condizione e quando, a 64 anni, quasi 20 anni or sono, si ritirò dal giornalismo attivo, nessuno avrebbe potuto riempire le sue scarpe, certamente non il successore designato, Dan Rather, sempre targato come troppo aggressivo. Nell’ informazione disintegrata dal 24/7 che per ogni minuto del giorno di ogni giorno deve trovare, o creare, sensazioni artificiali e polemiche, quel momento di raccoglimento mistico attorno all focolare di zio Walter per la «verità» del giorno è impensabile. I giovani sotto i 35 anni oggi ricevono le loro informazioni quotidiane più dai monologhi dei comici a tarda sera o dal pulviscolo del web, dove ciascuno può giocare al Cronkite di sé stesso, dunque di nessuno. L’ informazione «fai da te» o tagliata sulla misura dei pregiudizi è l’ antitesi di quello che era riuscito a fare e che riassumeva così per chi, immancabilmente, gli chiedeva il segreto: «Cercavo di essere soltanto un giornalista». Vasto programma, zio Walter. – VITTORIO ZUCCONI

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