Israel and Obama’s America

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Dopo soli quattro mesi dal suo varo, il governo israeliano è in serie difficoltà. L’ altro giorno è esploso il caso Lieberman, il ministro degli Esteri vicino all’ estrema destra, che la polizia accusa di corruzione, falso e riciclaggio di capitali. Sugli altri due partner maggiori della coalizione messa insieme da Netanyahu, il Labore l’ ortodosso Shas, incombe il pericolo d’ una spaccatura che farebbe dissolvere la maggioranza del governo in parlamento. E soprattutto, ben più rischioso politicamente dei malesseri interni alla coalizione, c’ è oggi lo stato dei rapporti tra Israele e l’ America di Barack Obama. Per la prima volta negli ultimi diciotto anni, infatti, un governo di Washington ha messo un governo d’ Israele con le spalle al muro. Come il presidente Obama aveva detto subito dopo il suo insediamento, gli Stati Uniti non intendono più tollerare che gli israeliani continuino ad espandere le colonie ebraiche a Gerusalemme Est e in Cisgiordania. Non è più questione di vaghe esortazioni, come ce ne furono anche negli anni di Bush, quando Condoleezza Rice raccomandava un congelamento delle nuove costruzioni perché “non aiutano il processo di pace”. Adesso la musica è diversa, le richieste americane sono drastiche. Gli insediamenti sono “illegittimi”, impediscono l’ intesa con i palestinesi, e quindi da ora in poi non un mattone dev’ essere più messo su un altro, ad opera dei governi di Gerusalemme, nelle terre che faranno parte del futuro Stato palestinese. La pressione politica di Washington s’ è fatta sempre più decisa. La scorsa settimana c’ erano a Gerusalemme ben quattro inviati di Obama: il negoziatore tra israeliani e palestinesi George Mitchell, il segretario alla Difesa Robert Gates, il consigliere per la sicurezza nazionale James Jones e l’ esperto di Iran alla Casa Bianca Dennis Ross. E benché abbiano parlato con i governanti israeliani anche di Iran, tutti e quattro hanno insistito sulla necessità di sospendere subito e completamente l’ allargamento delle colonie. Da qui i cartelli inalberati nelle manifestazioni delle destre israeliane. Lì, Barack Obama è indicato sempre e soltanto col suo secondo nome, Hussein, a denunciarne la discendenza da un padre kenyota. In altri cartelliè disegnato con un turbante intorno al capo. E in altri ancora, definito in questi termini: “L’ arabo che gli americani chiamano presidente”. Colore e demagogia a parte, nessun presidente degli Stati Uniti aveva mai subito un simile trattamento nelle piazze d’ Israele. Quando la nuova amministrazione americana dichiarò che non avrebbe più taciuto sull’ illegalità dei nuovi insediamenti ebraici, nell’ ambiente liberale pacifista israeliano si fecero molte scommesse. Sarebbe riuscito Obama ad ottenere da un governo israeliano quel che nessuno dei suoi predecessori aveva mai ottenuto dai governi di sinistra e di destra che si succedevano a Gerusalemme? Erano circa vent’ anni, infatti, che gli americani avevano capito quanto sarebbe stato importante, sulla strada d’ una soluzione del conflitto in Palestina, che Israele cessasse di costruire colonie sulle terre palestinesi. Ma ad eccezione d’ un tentativo fatto da Bush padre nel ‘ 91 di sospendere gli aiuti economici ad Israele se gli insediamenti avessero continuato a crescere (tentativo abortito dopo pochi mesi), nei sedici anni di Clinton e Bush jr. pressioni americane serie, efficaci, non ne erano mai venute. Da qui le discussioni e le scommesse dei pacifisti israeliani. Le parole di Barack Obama si sarebbero disperse al vento dopo i primi rifiuti di Benyamin Netanyahu, o il governo di Washington era stavolta deciso a imporre la sua linea? A giudicare dal clima politico che c’ è oggi in Israele, le scommesse le hanno vinte i pochissimi che prevedevano una svolta nei rapporti tra Washington e Gerusalemme. Nessun dubbio, infatti che la svolta ci sia stata, e più brusca, più veloce di quanto si potesse immaginare. La presa di distanza degli Stati Uniti rispetto al loro maggiore alleato in Medio Oriente (dopo che da anni molti politologi americani avevano messo in discussione la coincidenza tra “interessi dell’ America” e “interessi d’ Israele”), è a questo punto clamorosa. Né i contraccolpi in Israele s’ avvertono soltanto nei settori di destra o tra i coloni. Secondo un recente sondaggio solo il 6 per cento degli israeliani si fida infatti della politica mediorientale di Obama, mentre il 50 per cento si dice convinto che il presidente americano sia ormai su posizioni più pro-palestinesi che pro-israeliane. Il primo segnale, dunque, d’ una sfiducia nei confronti dell’ America, sino a ieri considerata la più sicura, incrollabile protettrice dello Stato ebraico. Uno degli effetti di questa diffidenza nei confronti degli Stati Uniti, è stato tuttavia la crescita in Israele della popolarità di Netanyahu. Il primo ministro appare adesso il coraggioso difensore dell’ autonomia nazionale. Nessuna personalità del paese, nemmeno sul versante della sinistra, si è sinora pronunciata contro di lui e il suo rifiuto di fermare del tutto l’ ampliamento delle colonie. Ed è anzi da qui che Netanyahu sta ricavando in questi giorni il consenso per il suo governo, che altrimenti – come s’ è detto all’ inizio – sarebbe già pericolante. La sua linea di difesa è duplice. Verso l’ esterno, insistere sul fatto che il pericolo di un’ arma nucleare iraniana è ben più urgente della questione palestinese. All’ interno, mostrarsi come la diga che si erge contro le pressioni di Washington. E questo mentre Barack Obama viene visto dagli israeliani come un alleato incerto, flessibile con tutti (con gli ayatollah di Teheran, con la Siria, con Putin), meno che con Israele. La partita tra Netanyahu e Obama è quindi ancora aperta. Obama ha dalla sua parte l’ intero Occidente, la Russia, e forse la maggioranza degli ebrei americani. Ma a sorreggere Netanyahu ci sono una società, un elettorato tra i più orgogliosi e imprevedibili, oltre che viziati in questi trent’ anni dalla pazienza e remissività dell’ America e degli europei. Ancora qualche mese, e si vedrà se “l’ arabo che gli americani chiamano presidente”, come si legge sui cartelli nelle manifestazioni delle destre israeliane, riuscirà ad ottenere da Netanyahu, dopo l’ assenso forzoso per la formula “due popoli, due Stati”, anche la fine dell’ irragionevole, ingiusta proliferazione delle colonie ebraiche in Palestina. – SANDRO VIOLA

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