The Kennedys and Us

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Dalla sua casa di Hyannis Port si vede il mare e, all’orizzonte, le due isole di Martha’s Vineyard e di Nantucket. Chissà se a Ted capitava qualche volta di guardarle e vedere racchiuse in quei due nomi l’America di Melville e quella della famiglia Kennedy. A Martha’s Vineyard i ragazzi Kennedy, la grande tribù di figli e nipoti, hanno passato le loro estati. Da Nantucket partiva il Pequod con a bordo Ismaele alla caccia della balena bianca.

Edward Moore, Ted come lo chiamavano tutti, era l’ultimo nato di questa famiglia che non sembrava finire mai. L’ho incontrato molte volte, negli Usa come a Roma. I suoi ribelli capelli bianchi, il suo volto che, anche in questi ultimi lunghi anni di malattia portava ben incisi i caratteri dei Kennedy, erano familiari a tutti. In America e nel mondo. Era di quasi vent’anni più giovane di John, meno che trentenne quando il fratello divenne presidente e lui ne raccolse l’eredità politica: fu eletto senatore in Massachusetts prendendo il posto che era stato di Jfk e da allora quel seggio in Senato non l’ha mai lasciato. Non deve esser stato facile quel ruolo di cucciolo nella famiglia più potente d’America, quell’eredità che si è tragicamente trovato sulle spalle dopo gli spari di dalla e di Los Angeles. Eppure in questa saga familiare segnata dal coraggio e dalla morte ha avuto un ruolo centrale quello di tenere accesa una idea della politica senza diventare solo il testimone del passato, ma riuscendo ad alimentare idee nuove e coraggiose. Che il vecchio leone non fosse assopito ce lo dice anche lo sforzo per sostenere, anche contro l’establishment democratico, quel giovane nero che si chiama Barak Obama.

La famiglia. Parlando dei Kennedy non si può fare a meno di tornare alla famiglia, alle foto di Martha’s Vineyard con John sulla barca a vela, con Bob a spasso sulla spiaggia. Anche solo pronunciare il nome di quest’isola faceva arrabbiare Nixon.

Per i conservatori americani era una specie di mantra a rovescio, come quando in Italia si vuol parlare male della sinistra attaccandogli l’etichetta di radical-chic. E in antipatia ai Kennedy, a quell’ambiente così bostoniano (buoni studi, irrequietezza intellettuale, legame sentimentale con la vecchia Europa, università venerabili) contro Ted veniva scagliato con una certa frequenza l’accusa (l’insulto) di essere un liberal. In Italia abbiamo altri insulti politici, ma cambia poco. In fondo quale era l’essenza di questo nome Kennedy, di questi tre fratelli, della forza (e della violenza subita) da questa famiglia? Credo, per capirci, che fosse quell’impasto di realismo e passione di valori e di capacità di leggere i problemi, quel senso della politica che in America aveva ispirato i momenti migliori (anche al di là del fatto se i presidenti fossero rossi o blu come i colori dei due partiti) dell’agire politico. Quello che, con i miei occhi di italiano, mi appare chiarissimo negli anni della presidenza Roosevelt e in quelli della brevissima, quasi fulminea, a ripensarci oggi di Jfk e nel lavoro di Robert Kennedy. Ted ha proiettato questa passione in anni difficili, da quelli nixoniani, segnati dalla guerra del Vietnam, alla grande riscossa liberista dell’era reaganiana. Mantenendo quello sguardo lungo che sapeva leggere i fenomeni e anche le novità senza rinunciare alla voglia di cambiare le cose. Unito a quel senso così radicato di fedeltà ai grandi ideali della Costituzione americana, a quel senso di unità nazionale e di patriottismo che è quanto di più lontano esista dallo sciovinismo. Qualcuno guardava a questo vecchio senatore, e più in generale all’esperienza di questa famiglia con malcelata ironia. Qualcuno parlava di un afflato idealistico che sconfinava con la retorica. Non sono affatto d’accordo: c’erano, anzi vorrei dire ci sono in questa esperienza e in questa idea della politica fermenti e sogni ambizioni e capacità di governare che possono ancora insegnare molto a chi – da una parte all’altra dell’Atlantico – vuole definirsi davvero un democratico.

So che al gattopardismo, che segna ancora tanta cultura politica italiana, appare incomprensibile lo spirito di chi ha il coraggio della sfida, ed è pronto a pagarne il prezzo. Quell’intreccio di idealità e pragmatismo che è il segno di un vero riformismo democratico. Conservo quel busto di John che Ted mi aveva regalato, e spero che Barack Obama, che passava le sue vacanze da presidente a Martha’s Vineyard, abbia fatto in tempo a salutarlo, come si riprometteva, prima che la morte se lo prendesse. I Kennedy, la tribù che continua a essere unita anche ora che prima la matriarca Rose e ora l’ultimogenito Edward non ci sono più, resteranno non solo sui libri di storia con le tragedie e il sangue che ne hanno segnato la storia ma anche nella memoria di ciascuno di noi: intelligenti, coraggiosi, con uno straordinario senso della sfida e dell’audacia, appassionati e colti.

Quando ho scritto “Il sogno spezzato”, il libro che ho dedicato a suo fratello Robert (era l’ormai lontano 1993) mi venne da citare non Whitman ma un poeta italiano, Leopardi. E voglio usare le parole di Leopardi per ricordare ancora una volta Ted e il suo insegnamento: “O la immaginazione tornerà in vigore, e le illusioni riprenderanno corpo e sostanza in una vita energica e mobile, e la vita tornerà a esser cosa viva e non morta, e la grandezza e la bellezza delle cose torneranno a parere sostanza, e la religione riacquisterà il suo credito; o questo mondo diventerà un serraglio di disperati e forse anche un deserto”.

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