WASHINGTON SE SOLTANTO in quella strada sul mare ci fosse stato un guard rail. Se avesse bevuto un po’ meno. Se una ragazza non fosse annegata sul sedile della sua auto. Se i fantasmi di tre fratelli non lo avessero schiacciato, oggi scriveremmo il necrologio di un Presidente degli Stati Uniti morto a 77 anni. ENON il requiem di una dinastia che con lui tramonta. Invece questo è soltanto l’ addio a un uomo che fu molto, senza mai davvero essere tutto, il Kennedy che non ce l’ ha fatta, neppure a morire da martire o da eroe come il primogenito Joseph caduto in guerra, restando il grande incompiuto della storia americana del ‘ 900. E’ il requiem malinconicamente piccolo per una famiglia di taglia extra extra large, questo saluto a “Ted”, che si è portato via, naturalmente nella casa fatale di Hyannis Port sull’ Atlantico, la storia,e il nome, che per mezzo secolo hanno rappresentato il mistero, la grandezza e il fascino dell’ America. Come l’ Europa del dopo guerra si era innomarata della nazione che l’ aveva sottratta al fascismo, così l’ Europa degli anni ‘ 60 tornò ad amare l’ America grazie al melodramma infinito della “Kennedy story”. Aveva ragione quel magnifico paranoico di Richard Nixon quando vedeva sotto ogni pietra del potere politico un Kennedy, uno dei suoi terribili boys che dal fondo fangoso della Boston cattolica e irlandese di immigrati pezzenti, arrampicandosi con le unghie di un’ ambizione e di una spregiudicatezza da fronte del porto, erano arrivati a occupare l’ altar maggiore della cattedrale America. Nessun altro clan, non i Bush, non i Roosevelt, non i Rockefeller, avrebbe mai posseduto la certezza della propria missione provvi denziale, della propria vocazione fatale a condurre l’ intera nazione come avevano loro, guidati dal «padrino», il vecchio Joe, il patriarca, e dalla matriarca Rose. Quella che ammonivai bambinie le bambinea non piangere mai, «perché un Kennedy non piange». Né la capacità di venderla a noi, consumatori insaziabili di miti e leggende. Rose, che aveva messo al mondo nove figli, Joseph, John, Rosemary, Kathleen, Eunice, Patricia, Robert, Jean e,a 42 anni, Edwarde ne avrebbe portati ai cimitero quattro prima di morire a 105 anni, sapeva, da devota cattolica e da pessimista irlandese, che la benedizionee la maledizione di ogni grande famiglia e di ogni lunga vita sta nella logica dei grandi numeri che garantiscono molti funerali e molti battesimi. E si reggono sulla ferrea omertà dell’ «uno per tutti e tutti per uno», la forza che sorregge, puntella e può uccidere. Come uccise John John, il figlio di JFK, precipitato nell’ Oceano ai comandi del Piper sul quale volava alla cieca, con il cuore il gola, per non arrivare in ritardo all’ ennesimo, imperdibile matrimonio di famiglia. Naturalmente sulla spiaggia davanti alla casa di Hyannis Port, dove erano morti il nonnoe la nonna. La “maledizione dei Kennedy” non era il sortilegio di una fattucchiera indispettitae vendicativa. Era nella loro dilagante visibilità e nella nostra curiosità, appese a quell’ inconfondibile dentatura fascinosamente equina, alla chioma spessa e indistruttibile che ancora, con grandi ciuffi bianchi, copre la testa della salma di Ted, al mistero di regicidi che vogliamo considerare sempre irrisolti per non arrenderci alla irrazionalità della Storia, alla facilità di rapporti umani che tutti possedevano e fece la fortuna di JFK. «Jack fu il primo uomo politico a colori» disse uno che non lo amava, il repubblicano Pat Buchanan, anche se il famoso duello con Nixon fu ripreso in bian coe nero, dove il “colore” era il suo fascino. La maledizione era semplicemente la conseguenza del loro essere tantie ingombranti. Da Joee Rose, sarebbero discesi quarantasette tra figli, cugini, affini, nipoti, pronipoti, e soltanto una fata straordinariamente benevola avrebbe potuto risparmiare a loro tragedie e amarezze dei comuni mortali. E quando si è un Kennedy, tragediee trionfi si vannoa cercare con ingordigia, perché sonoi risvolti inevitabili dell’ imperativo di primeggiare sempre, come il padre ordinava ai ragazzi in maglione irlandese di ruvida lanaa catenellae ciuffo che giocavano sulla spiaggia, rammentando loro che un Kennedy «gioca sempre per vincere». Anche se deve commettere qualche fallo pesante, come trafficare con Cosa Nostra, comperare elezioni primarie in West Virginia a suon di dollari accumulati nei traffici di melassa e alcol durante il Proibizionismo. O scongiurare il losco sindaco di Chicago, Daley, di «dare una mano al mio ragazzo», come fece il padre Joe durante il conteggio dello schede contro Nixon, preghiera che produsse il miracolo di 160 mila voti risorti dai cimiteri. Ted, il diminutivo familiare di Edward, in questa saga nibelungica di funerali e di incoronazioni, era il pulcino nero, quello che avrebbe per sempre dovuto vivere con i metaforici pantaloncini e le giacchettine smessi dai fratelli maggiori. Neppure la madre superiora del clan, Rose, quella che aveva accettato senza una lacrima di vedere la figlia Rosemary lobotomizzata e poi sepolta viva in un convento perché creava imbarazzi con la sua testa un po’ strana, o il padre, avevano previsto che su di lui, sull’ ultimo nato, cadesse il mantello di piombo dell’ eredità. Dovette accettarlo, perché nessuno può mai dimettersi dall’ essere un Kennedy, ma la follia della notte a Chappaquiddick nel luglio del 1969 e dell’ auto precipitata in mare con la innocente segretaria a bordo, sigillò il suo futuro. Neppure due campagne elettorali per la Casa Bianca, condotte quasi di malavoglia, male organizzatee distrutte, nel 1976, dall’ avversario Carter poterono cancellare quella notte. In un clan di magnifici egolatri motivati dal senso della storia, Ted era un uomo normale, con vizi normali. L’ alcol, prima di tutto, che assorbiva in quantità falstaffiane. La disinvoltura nel rastrellare finanziamenti, per sé, ma anche per quella guerriglia irlandese anti britannica che lui, segreto di Pulcinella, sosteneva. Un uomo mosso da passioni politiche, di «sinistra» come generosamente si sarebbe detto, più che personali, come quella eternae vana caccia a un sistema sanitario. Una passione che produsse l’ ultimo frutto dell’ albero ormai morente dei Kennedy, l’ investitura a Obama, contro una furibondae scornata Hillary Clinton, divenuto in quel momento il figlio che i fratelli non avevano mai avuto, davvero il primo “Kennedy nero”. Lo vidi da vicino, l’ ultimo dei boys, in un’ aula di tribunale in Florida, gonfio, rubizzo, candido, spaventosamente affascinante, poggiato come un meraviglioso tricheco alla sbarra dei testimoni per difendere il figlio di sua sorella Jean dall’ accusa di avere violentato una donna nella casa di Palm Beach dove lui, zio Ted, dormiva. «Io che ho accompagnato due fratelli che si erano sacrificati per la nazione…» sentii intonare la sua voce catramosae le donne della giuria avevano gli occhi bagnati, il pubblico e noi giornalisti bevevamo le sua parole, senza chiederci che cosa cavolo c’ entrassero i proiettili di Oswald con la seduzione di una donna ingenua. Fu l’ ultima volta che dovette giocare la “carta Kennedy”, per spazzare il tavolo e proteggere quel clan che con lui se ne è andato. Non con un “bang”, come scriveva il poeta T. S. Eliot, ma con il sospiro di un vecchio malato. «Non avrete più un Nixon da prendere a calci» aveva detto furioso il loro mortale nemico e la sua profezia ora si applica ironicamente rovesciata ai Kennedy. Non avremo più un Kennedy da venerare. – VITTORIO ZUCCONI
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