I bambini della seconda elementare Martin Luther King venuti dal South Carolina si aggirano tra i rottami sparsi nell’ Hangar 17 dell’ aereoporto Kennedy in attesa di sistemazione, come le scolaresche di Hiroshima nel Parco della Pace, e sfogliano compunti e lievemente annoiatii dépliant di quel giorno senza davvero capire e senza poter ricordare. Loro non erano neppure nati, quando le Torri morirono, e se otto anni sembrano pochi ai vecchi, sono una vita per i bambini. C’ è un presidente nuovo, al posto del Bush che ci commosse con il megafono in mano, solo in piedi sulle travi d’ acciaio giurando vendetta e promettendo giustizia ed è oggi un pensionato in Texas. C’ è già una generazione di piccoli americani per i quali l’ 11 settembre è storia degli altri, museo, gita scolastica, monumento ai caduti lungo un ennesimo Viale delle Rimembranze per una guerra che continua. E che ha ucciso molti più uomini e donne, giusti e ingiusti, colpevoli e innocenti, di quanti caddero quel giorno di fine estate. Cresce il museo, a Vesey Street, che le scavatrici e le gru stanno forgiando al posto dei crateri, e quando si alzano i monumenti inesorabilmente cala il ricordo dei vivi. New York non è una città che ami crogiolarsi nel passato e riesce meravigliosamente a digerire e metabolizzare anche eventi che stroncherebbero comunità e città più fragili. Stanno tornando su tutti i teleschermi quelle sequenze di purissimo orrore che ogni settembre, da otto anni, ci sono riproposte come la fonte dell’ orrore alla quale attingere per incendiare la memoria e per spiegare perché 4.343 cittadini americani in Iraq e più di mille in Afghanistan si siano aggiunti ai 2.993 che morirono nel World Trade Center, oltrea chissà quante decine, o centinaia di migliaia di iracheni e afgani. Ma la polvere della stanchezza sta avvolgendo tutto, come quella che si diffuse dal collasso delle due Torri e che ha consumato, con metodica lentezza, altre 800 vite umane, tra pompieri, poliziotti, passanti che la respirarono. Manhattan, la città che sarebbe dovuta morire quel mattino, nelle intenzioni dei criminali ai comandi dei due jet, è una bambina di otto anni, come i visitatori in gita nell’ Hangar 17 del provvisorio deposito dei ricordi. Ha già conosciuto un altro, in fondo banalissimo dietro tutte le iperboli giornalistiche, ciclo di« boom and bust », di esplosione e di collasso. I prezzi della case, che gli abitanti avrebbero dovuto abbandonare nella certezza della “seconda ondata”, si sono raddoppiati e poi dimezzati nello spazio dell’ esistenza di quei bambini, e mentre le autorità pubbliche si contorcevano per scegliere il progetto di ricostruzione fra i 50 mila inviati da studi di architettura in tutto il mondo, interi quartieri sonnolenti, delabré e malfamati da decenni, la zona dei macelli, la «Hell’ s Kitchen», la cucina del diavolo, le frange della vecchia Tribeca ancora intatte, gli avamposti della Harlem nera come della Spanish Harlem in continua ritirata, la West Side più sordida, erano sfatti e rifatti, trasformati in condomini di lusso, ristoranti per ” very very vip”, per ” glitterati”, da glitter, da luccichio, per milionari del rap e del hip hop, per magnacciae parassiti dello sport, in un’ esplosione di voglia di viveree di esibirsi su quel palcoscenico del mondo dove nessun incendio di fanatici dementi potrà mai bruciare più intenso del falò delle vanità. Wall Street ha fatto in tempo a salire ad altezze siderali, poi precipitaree poi risalire, travolgendo quel popolo delle “scatole di cartone” che un anno fa esatto, in un altro settembre che sembrava fatale – sempre settembre – preannuciava la fine del mondo del capitalismo, dei consumi, delle speculazioni mentre finiva soltanto il loro, alla Lehman, alla Bear & Sterns, alla Merryl Lynch, alla Aig Assicurazioni, per ricominciare. I morti hanno seppellito i morti e i vivi stanno tornando a fare esattamente quello che facevano prima, tra nuove profezie di catastrofi, annunci di attacchi terroristici ringhiati cinicamente dagli sconfitti come Dick Cheney, il presidente ombra che governava dietro la silhouette di George Bush e oggi profetizza quello che segretamente spera, che l’ odiato Barack Obama debba subire quello che la imprevidenza sua e della sua gente permise che accadesse l’ 11 settembre. Sarà bellissimo, il memoriale delle Due Torri nella Lower Manhattan, con lapidi e nomi scolpiti e 30 querce, l’ albero della permanenza contro l’ effimero della vita, i nuovi grattacieli, la stazione scintillante della sotterranea, le scolaresche in visita guidata, le voci dei superstiti che narreranno dagli altoparlanti le ore di quella mattina, le cose che dirà Obama per segnare il suo primo 11 settembre da presidente e cercare di commuovere un’ America che della democrazia esportata in Iraq completamente s’ infischia, come avvertono le ricerche fatte sulle pagine dei giornali e sulle sequenze delle news televisive.E che da agosto rigetta anche la liberazione dell’ Afghanistan, dichiarandosi, per la prima volta in otto anni, contrario anche a quella guerra e favorevole al “tutti a casa”. Sarà commovente quando raccoglierà dall’ Hangar 17 le tonnellate di rottami, le biciclette contorte, i pezzi di trave ancora marcati dai segni lasciati dai pompieri che vi morirono sotto e sicuramente bagnati da tracce del dna di quegli ancora quasi mille morti dei quali non furono mai trovati, o riconosciuti, i resti, e dolcemente inutile. Il vero, indistruttibile memoriale che New York erigerà a quelle vittime, impiegati, fattorini, manager, garzoni, turisti stranieri, ebrei, cristiani, mussulmani, atei, immigrati clandestini fusi insieme nella cittadinanza assoluta dell’ olocausto, è New York. Che è rimasta in piedi, sfacciata anche se sfregiata, mentre i suoi nemici restano a contorcersi nel buio della loro solitudine mistica e demente, la città che « never sleeps », dicono le ballate, ma che soprattutto« never dies », mai muore. – VITTORIO ZUCCONI
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