Nonostante il sostegno cinese, l’unico paese che la Corea del Nord rispetta e col quale vuole stringere amicizia sono gli Stati Uniti La sorprendente e scenografica visita dell’ex presidente degli Stati Uniti Bill Clinton in Corea del Nord del 13 agosto si è conclusa con successo e con la liberazione di due giornaliste americane trattenute dal regime comunista nord-coreano. L’opinione pubblica mondiale si rallegra delle nuove competenze acquisite da Bill Clinton in fatto di liberazione di ostaggi, ma non tutti si uniscono a tale gioia.
La Cina, per esempio, molto verosimilmente è più afflitta che lieta per l’esito della missione di Clinton. Non che Pechino abbia interesse alcuno per il protrarsi della carcerazione delle due americane: i leader cinesi, però, con ogni probabilità sono seccati che i nord-coreani ancora una volta abbiano dato la ribalta agli americani e non a loro. Dai comunicati stampa è palese infatti che Pyongyang non si è nemmeno preso la briga di informare Pechino della visita di Clinton: è stata Washington ad avvisare Pechino della missione dell’ex presidente americano a Pyongyang.
Tenuto conto che il regime nord-coreano non potrebbe vivere neppure un giorno senza il sostegno cinese, la domanda che esige una risposta è la seguente: perché Pyongyang guarda così spudoratamente dall’alto in basso Pechino? Se consideriamo l’iter delle trattative del cosiddetto sestetto, comprendente Cina, Stati Uniti, Corea del Sud, Giappone, Russia e Corea del Nord, i nord-coreani hanno sistematicamente dimostrato di avere una preferenza a trattare con gli americani, da soli e senza intermediari. Gli accordi più importanti raggiunti in relazione alla sospensione del programma nucleare nord-coreano sono stati siglati tra i negoziatori nord-coreani e americani, senza alcun coinvolgimento dei cinesi né alcun preavviso.
Per la Cina, essere esclusa dalle trattative e messa in secondo piano non significa soltanto perdere la faccia: significa anche mettere in luce una pecca basilare presente nei rapporti di Pechino con la Corea del Nord.
Considerato che i cinesi assicurano ai nord-coreani la maggior parte del loro fabbisogno in termini di energia e prodotti alimentari, si ritiene comunemente che solo la Cina possa far abbassare le armi ai nord-coreani. Di conseguenza, l’Occidente ha sempre contato su Pechino affinché esercitasse pressioni su Pyongyang e perché Pyongyang onorasse gli accordi di disarmo nucleare ratificati. In realtà la situazione è completamente diversa. La Corea del Nord ha voluto sfidare la comunità internazionale di proposito, facendo a pezzi gli accordi e conducendo due test nucleari. Si è altresí fatta beffe della Cina, sua unica sostenitrice, ogniqualvolta questa ha chiesto che si comportasse in modo più appropriato. Perché dunque Pechino appare impotente nei confronti di un Paese che non potrebbe sopravvivere senza il suo sostegno?
La risposta è semplice. Se è vero che la Cina è insofferente nei confronti delle ambizioni nucleari nord-coreane, è anche vero che teme ancor più gli americani. Per quanto esecrabile sia il regime di Pyongyang, esso funge in ogni caso ancora adesso da cuscinetto strategico tra Cina e Stati Uniti. Se Pyongyang cadesse, questo è il timore di Pechino, questo asset strategico svanirebbe e Washington si ritroverebbe a disposizione l’opportunità di installare sue basi militari ancora più vicino al territorio cinese. Inutile dire che i nord-coreani conoscono fin troppo bene i timori di Pechino, e di conseguenza non tengono in nessun conto ciò che pensa.
Finché Cina e Stati Uniti rimarranno avversari strategici a lungo termine, alla Cina resta ben poco da fare oltre a continuare a sostenere un alleato pericoloso e ingrato. L’unico paese che la Corea del Nord rispetta e col quale vuole a ogni costo stringere amicizia sono gli Stati Uniti. La missione di Bill Clinton a Pyongyang, coronata da successo, è soltanto l’ultimo esempio in ordine di tempo di come gli Stati Uniti, malgrado tutti i loro problemi, intendano essere leader nelle trattative. Per quanto riguarda la Cina, invece, si tratta di un ulteriore ricordo dei limiti del suo potere e del suo prestigio.
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