Charisma is No Longer Enough

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MA IL CARISMA NON BASTA – ORA IL MONDO DEVE PRESTARE ATTENZIONE ALLA MANO TESA DI UN PRESIDENTE SINCERO

Repubblica — 24 settembre 2009 pagina 13 sezione: PRIMA PAGINA

DIETRO le parole sempre nobili, e la sua impareggiabile capacità di enunciarle con la passione che incendiò la campagna elettorale, la storia che Barack Obama ha dipanato per i rappresentanti del mondo nel suo primo discorso all’ Onuè la spietata narrazione di un fallimento, insieme globalee americano. Il fallimento della comunità internazionale di fronte a inutili stragi da fame e da guerre. DELLE impotenti Nazioni Unite nell’ essere qualcosa più di una agenzia per la protezione civile globale e la distribuzione di pacchi e coperte. Il ritardo colpevole nell’ affrontare il disastro del riscaldamento e dei gas industriali. E il fallimento del suo predecessore, George Bush nel lasciare, dopo due guerre, un mondo che somigli alla promessa di sicurezza e di egemonia, come voleva il testamento dei neo conservatori sull’ impossibile “Nuovo Secolo Americano”. Senza mai sconfessare, accusare o anche soltanto nominare il suo predecessore, che sarebbe un atto imperdonabile nel galateo civico americano, i 38 minuti di arringa obamania hanno tracciato un ritratto amaro del mondo che lui, e altre 189 nazioni raccolte all’ Onu, hanno ereditato dalla allucinazione dell’ interventismo unilaterale spacciato per idealismo e che ora dovrebbero raddrizzare attraverso una nuovo di «multilateralismo pragmatico». Nel quale, pensa il Presidente riprendendo in chiave diplomatica il tema che sollevò temerariamente di fronte alla comunità afro-americana sempre esposta al vittimismo razziale, l’ America per prima, ma tutte le altre nazioni, «devono assumersi le proprie responsabilità», anziché scaricare gli altri, specialmente sugli Stati Uniti, le conseguenze delle loro scelte e del maltrattamento dei propri cittadini. La critica forte, anche se implicita, che questa nuova amministrazione muove a chi l’ ha preceduta è in quella impossibilità di «imporre la democrazia», dice Obama, a chi non è pronto ad accettarla o a chi non ha maturato le condizioni interne per radicarla. Non si tratta di rinunciare al «diritto di usare la forza per difendere la sicurezza degli Stati Uniti, per la quale non chiederò il permesso a nessuno». Ma di riconoscere che la premessa ideologica fondamentale di quella dottrina Bush alla quale lo stesso Bush aveva rinunciato nel suo secondo turno nello Studio Ovale, indignando il suo vice Cheney, era fallace. E l’ America non può essere da sola, o con chi la segue (ricordate la «coalizione dei volontari sbriciolata in Iraq»?) la forza che decide, con sospetta selettività, dove e quando cambiare regimi sgraditi. Perché «se nessuna nazione deve essere condannata a subire la tirannide del proprio governo, nessuna nazione deve essere sottoposta alla tirannide di un governo straniero» Il limite di questo «multilateralismo pragmatico» spiegato da Obama a un’ assemblea che non sempre lo ha accolto entusiasticamente, è che occorre essere almeno in due, per fare progressi e risolvere problemi. E non sempre la capacità persuasiva, il carisma oggi un po’ calante e la forza della storia personale del presidente bastano per convincere avversari, nemici, fanatici, a più ragionevoli consigli. E’ importante che il nuovo capo della nazione americana spieghi di avere obbiettivi concreti, come i quattro che ha elencati – l’ arresto della proliferazione nucleare, la messa al bando degli esperimenti atomici, la guerra collettiva al degrado della Terra provocato dall’ attività umana e la nuova regolamentazione dell’ economia e della finanza globali – ma la falla nella “dottrina Obama” è nella disponibilità degli altri a partecipare alla partita. «Purtroppo né l’ Iran né la Corea del Nord hanno rispettato i loro obblighi internazionali». E allora? E allora il paradossoè che la soluzione dipende da coloro che hanno creato il problema, come Ahmadinejad, che ha parlato ieri sera. Un dilemma evidente soprattutto in quel conflitto fra Israele e Palestina per il quale Obama chiede al governo Netanyahu di mettere fine agli insediamenti, una richiesta pubblica che ha immediatamente infuriato il governo ebraico, e ai governi arabi di rinunciare a quella «propaganda al vetriolo» contro Israele che danneggia la stessa causa della Palestina sovrana. Sul fallimento continuo che questa istituzione, l’ Onu, e il bushismo, si sono lasciato dietro, anche il giudizio dell’ America è chiaro, dimostrato nella crescente opposizione anche alla «guerra giusta», quella a Kabul. Ma è il passaggio alla persuasione diplomatica, al multilateralismo pragmatico che lascia scettici i duri a morire del bushismo, come l’ ex ambasciatore di Bush all’ Onu, John Bolton, che ha subito accusato Obama di avere «messo la testa di Israele sul bancone del macellaio». Il Presidente, predicando la responsabilità collettiva e la fine dell’ America «cavaliere solitario» si limita in sostanza a fare i conti con il mondo devastato da crisi ambientali, belliche, etiche e finanziarie, costate finora «duemila miliardi di dollari» che ha ereditato da Bush, puntando su una razionalità e una ragionevolezza che scarseggia. Lo ha dimostrato parlando dopo di lui Gheddafi in uno sproloquio tragicomico trascinato per 100 minuti strazianti di fronte a un’ assemblea sbigottita e progressivamente deserta. Ha fatto a Obama il dubbio favore di chiamarlo «il nostro figlio», il figlio d’ Africa, e all’ Italia il dubbio onore di indicarci come esempio. Ma se a Gheddafi pochi hanno dato ascolto, abbandonando in massa l’ aula dell’ assemblea, la domanda seria è: il mondo presterà attenzione alla mano tesa da Obama, dopo avere respinto il pugno di Bush?

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