An Award for the Future

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Un premio al futuro

di VITTORIO ZUCCONI

WASHINGTON – Voto di incoraggiamento più che voto di profitto il Nobel per la Pace a Obama che ha mandato fuori dai gangheri coloro che non hanno mai digerito la vittoria di quest’uomo troppo diverso, ha un merito e un difetto evidenti.

Ha il merito di premiare le buone intenzioni e il difetto di ignorare l’assenza di risultati concreti ottenuti nei pochi mesi – dieci – di presidenza. Di essere, in una parola sola, una scommessa.

Non è la prima volta, e neppure l’occasione più controversa, nella quale questo Nobel, assegnato da un circolo di giudici norvegesi diversi dall’Accademia svedese, che il riconoscimento per la pace viene conferito a lavori in corso o per successi discutibili. Quando lo vinse Lech Walesa, che ieri è stato ingenerosamente tra i critici di Obama, era l’anno 1983 e la battaglia di Solidarnosc contro il regime polacco era ancora molto lontana dal successo pacifico, mentre infuriavano le voci di un’invasione sovietica. E il primo presidente americano che lo ricevette, Theodore Roosevelt nel 1906, era reduce da una guerra coloniale per strappare Cuba alla Spagna, dove aveva condotto bande di volontari, cowboy e irregolari all’assalto delle colline nemiche.

La novità soprendente di questa edizione 2009 non è il suo essere controversa, perché da Arafat a Le Duc Tho, da Kissinger a Mohamed el Baradei, direttore dell’Agenzia atomica internazionale, molti insigniti hanno lasciato più dubbi che entusiasmi. È l’essere stata dedicata alle intenzioni, prima che alle azioni, e l’aver premiato per la prima volta un capo di Stato all’inizio della propria difficilissima avventura. Un azzardo, una puntata a partita appena iniziata.

Il merito di Barack Obama, quello che ha creato l’unanimità di giudizio fra i giudici, è stato di essersi visto ancora come il non-Bush, la non-Coca Cola, secondo lo slogan celebre di una bibita che voleva fare concorrenza alla marca più famosa; come colui che vede, e fa, la guerra come ultima possibilità e non come scelta ideologica a priori. Almeno agli occhi dell’Europa – un po’ meno dell’America, dove l’infatuazione elettorale, come sempre accade, si è inevitabilmente raffreddata – Obama incassa ancora i grassi dividendi (oggi divenuti il milione di euro del Nobel) della plebiscitaria impopolarità di Bush nel mondo.

È sembrato un paradosso anche il fatto che sia stato scelto come simbolo di pace proprio nei giorni in cui potrebbe decidere, con molta riluttanza, di inviare altri 40mila soldati in Afghanistan in missione di guerra come gli domandano i generali. Ma il Nobel non ha mai premiato i pacifisti, come a volte si equivoca, piuttosto coloro che alla pace arrivano anche preparando la guerra, secondo il motto latino, o vincendola. Cordell Hull, il segretario di Stato americano insignito nel 1945, era l’autorevole rappresentante di una nazione che aveva appena sganciato due bombe atomiche sul Giappone e condotto una guerra senza quartiere. Ma aveva aiutato a combattere e a vincere un conflitto che appariva indubitabilmente giusto.

Non tutti, vuole dire questo Nobel ancora più controverso, soggettivo e addirittura screditato – per chi non ne condivide le scelte – di quello per la Letteratura, possono essere apostoli e martiri della non violenza come Martin Luther King, madre Teresa di Calcutta, Albert Schweitzer e Aung Sang Suu Ky. In Obama si è voluta riconoscere la volontà di ammettere, politicamente, gli errori ideologici dei predecessori infilati nel vicolo cieco dei cambi di regime a piacere, anche se l’eredità di quegli errori continua a trascinare il nuovo presidente nel pantano dove si è trovato al suo insediamento.

Anche la reazione della Casa Bianca alla notizia, che Obama ha raccontato di avere saputo dalla figlia che lo ha svegliato annunciandogli di essere stato premiato (graziosa bugia per il pubblico, perché era già stato preavvertito dall’addetto stampa Gibbs alle 6 del mattino) porta quel segno di novità, di aria fresca nel palazzo del massimo potere, che il cupo regno di Bush e del suoi ringhioso vice Cheney avevano reso soffocante. “Wow!” è stata la prima esclamazione, da teenager sopreso da un grosso regalo inatteso. E poi barbecue serale, con bistecche e salsicce e hamburger, come un picnic in famiglia con amici.

Un’assenza di retorica, di vanagloria, di rivincita contro il branco di chi abbaia contro di lui, che conforta ancora più delle sue parole di risposta ufficiali, dove ha ammesso che non sono stati i suoi “accomplishment”, i risultati, a meritargli il premio, ma “il riconoscimento del ruolo di leadership dell’America”. Possibilmente un’America che somigli più al discorso del Cairo pronunciato da Obama che ai proclami deliranti di “nuovi secoli americani” scritti dai neotrotskisti – poi detti neocon – convertiti alla crociata permanente. Questo premio è semplicemente una “chiamata ad agire”. Nel gergo sportivo, Obama ha fatto il gol e ora deve meritarselo.

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