Elections: A Tough Game in America

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L’ idea venne dal West, dagli uomini della Frontiera disgustati dalle stanze fumose dei “boss” che mercanteggiavano, fra sigari e whisky il nome del candidato per la Presidenza degli Stati Uniti. Fu l’ Oregon, un secolo fa, nel 1910, il primo stato americano a organizzare elezioni di partito e a battezzarle “primarie” per scegliere con il voto la persona da lanciare verso la Casa Bianca. Eppure l’ idea, comprensibilmente poco amata dai signori dei sigari, richiese altri 58 anni, lacrime e sangue vero, sparso nella Chicago della atroce Convention democratica del 1968, per diffondersi. Erano, in quel 1968, appena 12 fra 50 stati a indire primarie, o assemblee spontanee di cittadini chiamate caucus per scegliere il proprio alfiere. La storia delle elezioni primarie nella nazione che le inventò è una storia di tiro alla fune fra i sostenitori del voto popolare e i mandarini dei partiti per decidere a chi assegnare la investitura nei Congressi. È un gioco duro e serissimo nel quale si mescolano le astuzie dei concorrenti per inclinare il piano delle primarie a proprio favore, la partecipazione popolare e il ruolo tanto spesso determinante dei media, che credono di avere capito i trucchi dei partiti e non sempre si rendono conto di essere proprio loro l’ oggetto del gioco. Cosa che alcuni, come Jimmy Carter nelle primarie democratiche del 1976, Ronald Reagan in quelle repubblicane del 1980 e soprattutto Barack Obama lo scorso anno, avevano invece capito e sfruttato alla perfezione. Non esiste una norma unica e nazionale che stabilisca come, dove e quando debbano essere organizzate le elezioni di partito. I comitati direttivi nazionali decidono a proprio arbitrio, spesso cambiando di ciclo in ciclo elettorale chi possa parteciparvi, come debbano essere contati i delegati che le primarie, dove non si vota per una persona, ma per i rappresentanti da inviare alle Convention. Esistono perciò primarie “chiuse”, riservate ai cittadini che si siano iscritti alle liste per uno o l’ altro dei due maggiori partiti. Primarie “aperte” alle quali chiunque può votare magari soltanto per sparigliare le carte degli altri come accadde con i voti repubblicani andati alla Clinton, per sgambettare a Obama. Assemblee spontanee, appunto i caucus come quello importantissimo tenuto nello Iowa, uno stato elettoralmente insignificante ma sempre primoa indicare preferenze che i media esaltano, appunto perché sono le prime. La corsa a essere i primi a votare si fa dunque di elezione in elezione più fallosa e sporca, perché il vantaggio offerto da una partenza veloce è, mediaticamente e finanziariamente, enorme: i fondi elettorali si esauriscono in fretta se il proprio cavallo resta attardato dopo pochi metri. Ben lungi dall’ essere un sistema perfetto, le primarie rimangono un pessimo meccanismo di selezione migliore di tutti gli altri, come disse Churchill della democrazia. Non vi partecipa mai più del 15 per cento in media degli elettori e per questo i signori del sigaro tentano di creare correttivi al rischio principale delle elezioni primarie: quello di vedervi partecipare soltanto le frange più estreme del proprio elettorato, che possono bastare per spingere il loro candidato “di nicchia”, ma garantiscono poi la disfatta nel duello finale contro il candidato opposto, sempre decisa dall’ elettorato flottante, moderato e incerto. Per questo si dice, da sempre, che le elezioni americane sono una gara che parte dai poli estremi opposti alle primarie e poi, vinta la nomination, si trasforma in una corsa a chi arriva per primo al centro ad afferrare la palla. Sono confuse, feroci, spesso incoerenti. Perché sono, appunto, democrazia. © RIPRODUZIONE RISERVATA – VITTORIO ZUCCONI

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