Lal Mohammed è il nome del contadino afghano a cui i talebani mozzarono naso e orecchie, come punizione per essere andato a votare al primo turno delle elezioni presidenziali. La sua vicenda commosse, per un breve momento sia chiaro, l’opinione pubblica del mondo. Il suo cocciuto coraggio sembra simboleggiare la forza degli umili, che sta nel numero ma anche nella dignità individuale, capace di prevalere persino sulla ferocia dei violenti e sull’arroganza dei potenti. Ora sappiamo che il suo sacrificio non è servito a nulla. Il ministro degli Esteri Abdullah Abdullah ha definitivamente rotto gli indugi e dichiarato che non parteciperà al ballottaggio, per timore di ulteriori brogli. Il paradosso è che, a rigore di Costituzione afghana, il ballottaggio dovrebbe tenersi comunque, sulla pelle dei tanti Lal Mohammed, altrimenti il presidente in carica Ahmid Karzai – il cui fratello è accusato di essere, contemporaneamente, un narcotrafficante e sul libro paga della Cia – potrebbe perdere la già scarsissima legittimità di cui gode. Buon primo anno alla Casa Bianca, Mr President!, verrebbe da dire…
Certo è che la situazione dell’area sfiora ormai il disastro, e non sembra che la Casa Bianca abbia per le mani chissà quali idee. In queste condizioni, i 40.000 rinforzi (forse) promessi al generale McCrystall rischiano di essere allo sbaraglio. D’altra parte, senza questi e altri rinforzi, le truppe già presenti sul territorio possono rappresentare poco più che bersagli per gli attacchi dei talebani e dei qaedisti. Con il precipitare della situazione istituzionale afghana, si palesa sempre più che la tanto auspicata «soluzione politica» del pasticcio afghano potrebbe essere persino più chimerica della soluzione militare. A Washington si direbbe che siano paralizzati. L’idea di villaggi protetti dalle truppe locali sostenute da militari Usa somiglia maledettamente alla riedizione dell’incubo vietnamita disegnato dal team Johnson-Westmoreland (il comandante delle truppe Usa in Indocina). La semplice destituzione di Karzai, sempre ammesso che si trovi con chi rimpiazzarlo, ricorda troppo da vicino la strada che portò l’Armata Rossa alla sconfitta.
In queste condizioni, comunque, è giunto il momento che la Casa Bianca decida senza altri indugi il da farsi, anche a costo di «commissionare» Karzai, affidando la «dittatura temporanea» a McCrystall. E’ una strategia politicamente scorretta, non c’è dubbio, e molto, molto rischiosa; ma è sempre meglio della «non-strategia» fin qui messa in campo. E’ infatti semplicemente assurdo e dilettantesco che l’orizzonte in cui agisce chi offre il maggior contributo al tentativo di mettere in sicurezza il Paese (le truppe americane e quelle della coalizione) debba essere determinato, continuamente cambiato e ulteriormente complicato dalle faide interne a una coalizione tanto corrotta quanto sgangherata, dai pasticci di un’improponibile Commissione elettorale indipendente, dalle solite chiacchiere di principio dei funzionari Onu. Se la Casa Bianca non è disposta a dare uno strattone alla cavezza di Karzai e soci, tanto vale che si inizino i colloqui tra i Paesi membri della coalizione per andarcene di lì il più rapidamente possibile, «sperando» che l’Afghanistan resti terra di nessuno per molti anni a venire, e non diventi subito e di nuovo il rifugio esclusivo e sicuro di Al Qaeda e dei talebani. Ma questa è forse la scelta più difficile per Obama. Per quanto il Presidente cerchi di girarci intorno, quella afghana è «la guerra di Obama». O per lo meno lo è diventata, da quando sulla distinzione tra fronte afghano e fronte iracheno l’allora candidato Barack convinse gli elettori di avere la stoffa del «Commander in Chief».
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