The Black Hole of Kabul

Edited by Laura Berlinsky-Schine

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CON l’ amara certezza di avere scontentato tutti, falchi e colombe, destra e sinistra, generali e ambasciatori, Obama ha preso la sola decisione che il pasticcio afgano ereditato da Bush gli consentiva. Ecioè affondare ancora di più la mano nel vespaio afgano. In un classico caso del «damned if you do, damned if you don’ t», del sarai maledetto se lo farai e sarai maledetto se non lo farai, Obama sapeva, mentre parlava ieri sera davanti ai futuri ufficiali che dovranno guidare i soldati in una terra dove sprofondano gli imperi dai tempi di Alessandro il Macedone, che qualunque decisione avesse annunciato sarebbe stata criticata e controversa e che questo potrà diventare il suo Vietnam. Il pantano nel quale la sua presidenza, insieme con la vita di centinaia di soldati americani ed europei e quella di migliaia di afgani, potrebbe essere inghiottita, come fu la presidenza di Lyndon Johnson negli anni ‘ 60. Tra le accuse di «tentennamenti» lanciate dai repubblicani, che lo avrebbero accusato di superficialità se avesse deciso in fretta o di disfattismo se avesse ridotto le forze, e quelle di «tradimento» scagliate dalla base democratica che da lui sognava la fine delle guerre bushiste e non l’ escalation militare, di fatto Obama non aveva scelta. Alzare le tende e abbandonare al suo destino e alla divorante corruzione «il sindaco di Kabul», come sarcasticamente è soprannominato quell’ Amid Karzai che sa benissimo come vincere le elezioni, ma non come governare, avrebbe comportato l’ immediata etichetta di «nuovo Carter», di colui che non possiede la pancia per combattere le minacce. Aumentare la presenza militare, che sotto la sua presidenza sarà più che raddoppiata da 48mila a 100mila, più 40mila militari della Nato, avrebbe – e infatti ha – aggiunto un’ altra delusione a chi lo aveva eletto per ribaltare il carretto ereditato da Bush, non per trascinarlo. In altre nazioni, e in altre culture politiche, la giustificazione di Barack Obama per questa nuova escalation militare sarebbe ovvia. Basterebbe scaricare sul predecessore la responsabilità oggettiva di avere sbagliato due volte, puntando il massimo sforzo sull’ Iraq, che non minacciava la sicurezza americana e trascurando l’ Afghanistan della cancrena talebana e del terrorismo arabo raggrumato attorno ad al Quaeda e protetto dal vicino Pakistan. Ma negli Stati Uniti, il rinvio delle colpe ai predecessori funziona per vincere le elezioni, non per governare o per coprirsi le spalle. Chi sta sulla plancia di comando ha voluto, e dunque si deve assumere, la piena responsabilità della rotta, anche se il mezzo che ha ricevuto era sgangherato. Ciò che dispiace ai sostenitori di Obamaea coloro che lo votarono entusiasticamente è constatare che la eccezionalità storica di quest’ uomo si sta, questa sì, impantanando nella implacabile normalità della cronaca e la brillantezza delle promesse si sta opacizzando nella difficoltà delle decisioni. Il presidente ne è così conscio che egli ha posto, e si è posto, un traguardo temporale di tre anni per la conclusione della campagna in Afghanistan, dunque il tempo che lo separa, esattamente, dal novembre del 2012, quando si terranno le prossime elezioni presidenziali. Sa che l’ avvitamento di questa guerra in un ingranaggio infernale di nuove escalation senza un chiaro obbiettivo di vittoria e senza una strategia di uscita, secondo lo schema Johnson che di brigata in brigata passò da 10mila a mezzo milione di soldati in Vietnam, sarebbe la sua condanna a essere, appunto come Johnson, o come Carter, il presidente di un solo mandato. Da ieri sera, le guerre di Bush sono divenute le guerre di Obama.

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