Dopo i soldati, i soldi. All’indomani dell’annuncio sull’invio di altri 30 mila militari in Afghanistan, negli Stati Uniti è scontro sui finanziamenti alla guerra. I rinforzi costeranno un milione a soldato, ovvero 30 miliardi di dollari in più rispetto ai 130 già inseriti nel budget per la missione che il Congresso voterà nei prossimi giorni.
A Barack Obama spetta il delicato compito di spiegare come pagherà per la guerra vincendo lo scetticismo di quei repubblicani contrari all’escalation e l’opposizione della sinistra liberal e pacifista che chiede il ritiro delle truppe. Dati alla mano, i rinforzi costano 2,5 miliardi di dollari al mese, ovvero almeno 195 dollari a contribuente, abbastanza da far raddoppiare la spesa bellica per l’anno fiscale 2010 rispetto al 2009. Secondo il Center for Arms control e Proliferation di Washington così solo nel 2010 l’investimento per la missione sarà pari alla metà di quanto gli Usa hanno speso dal 2001 ad oggi.
Cifre enormi che portano a sfondare il tetto dei mille miliardi da quando sono iniziate le guerre in Afghanistan e Iraq gravando sul già pesante debito pubblico, salito quest’anno all’85% del Prodotto interno lordo. Il rincaro arriva inoltre in una fase delicata per l’economia Usa, con una ripresa post-crisi lenta e macchinosa e la disoccupazione oltre il 10%. «Obama e il Congresso ora devono affrontare la questione in modo credibile e veloce», avverte il New York Times in un editoriale, in cui si apprezza tuttavia lo sforzo del presidente di aver fissato un prezzo credibile per la sua escalation, e per aver promesso di lavorare con il Congresso per i fondi, al contrario di quanto ha fatto per anni George W. Bush che «cercato di nascondere il vero costo delle guerre in Afghanistan ed in Iraq».
Il problema è capire dove attingere per evitare voragini di bilancio: si è parlato di tagli su altri capitoli di spesa, o del ricorso all’emissione di War Bond sul modello di quanto fatto da Franklin D. Roosevelt nella Seconda Guerra mondiale. A farsi strada nei giorni scorsi è stata l’idea di una War Tax – un modo per far pagare ai ricchi e alle grandi corporation il peso dei rinforzi – avallata da influenti democratici, ma osteggiata dal presidente della Camera, Nancy Pelosi che teme le ricadute in termini di consensi per l’impopolarità della misura.
Secondo le stime i costi reali pro-capite potrebbero comunque lievitare tra i 400 e i 600 dollari entro i prossimi due anni, e sempre che tutto vada secondo i piani di Obama che da parte sua deve spiegare a quali criteri ricorrere per capire quando l’Afghanistan sarà in grado di stare in piedi da solo. «Sebbene sia una buona idea fissare una scadenza» per il ritiro, sferza il «Times», sono forti i dubbi sul fatto che il presidente «possa rispettare la scadenza annunciata per luglio 2011». Intanto ieri in Senato, durante il capo del Pentagono, Bob Gates, dopo aver firmato l’ordine di dislocamento dei 30 mila militari, ha rivelato che i rinforzi potrebbero salire a quota 33 mila uomini grazie alla flessibilità concessa dal presidente per l’invio di «équipe mediche, intelligence, ingegneri e sminatori: ovvero tutto il personale necessario a salvare la vita dei nostri soldati».
Un incremento destinato a gravare di più sul budget e a inasprire il dibattito politico. E mentre per i revisori di Congresso e Casa Bianca si preannunciano tempi difficili, Wall Street si scandisce lo slogan «Finché c’è guerra c’è speranza». I titoli del settore Difesa e Aerospaziale contenuti nello S&P 500 hanno infatti segnato rialzi sin dalla vigilia dell’annuncio di Obama e il trend pare destinato a proseguire visto che il sottoindice di settore è cresciuto del 75% (contro il +1% di quello generale) da otto anni a questa parte, ovvero da quando Washington ha inaugurato la nuova fase bellica.
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