An Important and Imperfect Victory

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COPENAGHEN DOPO un lungo braccio di ferro AmericaCina al vertice sull’ ambiente, alla fine l’ intervento di Barack Obama fa la differenza. «C’ è l’ accordo, è solo una prima tappa, ancora insufficiente – dice il presidente americano – ma abbiamo raggiunto l’ obiettivo di limitare a due gradi il riscaldamento climatico». Si rivela decisivo il suo pressing sul premier Wen Jiabao, Obama strappa concessioni modeste ma cruciali a una Repubblica Popolare che è diventata la “prima potenza carbonica” del pianeta, sorpassando l’ America per le emissioni di CO2. La chiusura del vertice di Copenaghen si gioca tutta sull’ asse del nuovo “G-2”. PECHINO è un interlocutore coriaceo, solo dopo una giornata di trattative durissime Wen decide di “salvare la faccia” al leader degli Stati Uniti. Appena atterrato a Copenaghen, Obama usa toni insolitamente perentori per sbloccare il summit. «Il tempo delle parole è scaduto», annuncia il presidente parlando alla sessione plenaria. Ricorda che non è più l’ ora delle controversie, i danni del surriscaldamento «sono scienza, non fantascienza». Esortai leadera raggiungere anche solo «un accordo imperfetto», pur di muovere nella direzione giusta. Obama sa di non poter tornare a casa a mani vuote: guai se dovesse ancora una volta farsi accusare in America di essere troppo molle con i cinesi – come accadde a novembre dopo la missione a Shanghai e Pechino. Perciò quello che doveva essere un grande consenso multilaterale, si gioca nell’ ultima giornata in un confronto serrato tra le due superpotenze. Fin dal mattino Obama si isola a tu per tu con Wen. Si scontrano su due questioni cruciali. Da una parte l’ esigenza che anche la Cina adotti dei tetti alle sue emissioni di CO2. La promessa fatta fin qui da Pechino è di ridurre “l’ intensità carbonica” del suo sviluppo: cioè di quanto aumentano le emissioni di CO2 per ogni percentuale di crescita del Pil (meno 40% entro il 2020). E’ poco per il presidente Usa, che deve fare i conti con una crescente resistenza fra i suoi industriali e anche nella classe operaia sindacalizzata che vota democratico: guai se le nuove norme ambientali regalano un ulteriore vantaggio competitivo al made in China. Ancora più importante, è la questione dei controlli da affiancare agli aiuti ai paesi emergenti. Obama mette sul piatto a Copenaghen 100 miliardi di dollari all’ anno per un decennio (anche se gli Stati Uniti contribuirebbero solo per il 20%). Non può dare agli americani l’ impressione di firmare un assegno in bianco. Come giustificare un trasferimento di fondi alla Cina, senza la possibilità di verificare sul campo che le misure di riduzione dell’ inquinamento vengano applicate? L’ affidabilità delle rilevazioni sulle emissioni carboniche può essere lasciata alle autorità cinesi, che non sono soggette al controllo di un’ opinione pubblica libera, né di ong indipendenti? Un accordo simile sarebbe considerato un grave cedimento in America, dal Congresso e dall’ opinione pubblica. «Non è possibile – dice il presidente – fare un’ intesa internazionale senza che includa qualche forma di controllo sul mantenimento degli impegni». Dopo l’ incontro del mattinoa tu per tu con Wen Jiabao, anche in serata il presidente deve tornare a negoziare con l’ interlocutore cinese, stavolta spalleggiato dai suoi alleati India, Brasile e Sudafrica. Wen promette: «Aumenteremo la trasparenza, ci impegneremo nel dialogo e nella cooperazione internazionale». La Cina ha una suscettibilità estrema sulle “interferenze esterne”, un attaccamento quasi ossessivo alla sovranità nazionale. Non le è facile cedere all’ America o alle Nazioni Unite il diritto di effettuare controlli sulle sue politiche ambientali. Ma anche Obama ha un margine di manovra ridotto. A Copenaghen lo insegue come un’ ombra la delegazione repubblicana, guidata dal deputato texano Joe Barton. «Noi non lasceremo distruggere posti di lavoro americani – minaccia Barton – in nome di qualche esoterico beneficio ambientale da misurare fra cent’ anni». L’ Energy Bill, la riforma delle regole ambientali che dovrebbe applicare le promesse di Obama – meno 17% di emissioni carboniche nel 2020 rispetto al 2005 – langue al Senato in un iter legislativo combattuto. La Green Economy, la rivoluzione verde che fu uno dei temi della campagna elettorale di Obama, è impossibile senza un aiuto dai dirigenti cinesi. Alla fine il compromesso è raggiunto sul minimo comune denominatore. In extremis, si evita il fiasco che avrebbe lasciato un segno pesante su tutto il bilancio del primo anno di presidenza Obama.

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