Che cosa succederà «dopo», quando la fase acuta delle prime settimane di emergenza umanitaria sarà alle spalle, lasciando dietro di sé un Paese devastato economicamente, socialmente e politicamente? Haiti era notoriamente uno Stato fallito ben prima della catastrofe di nove giorni fa, benché convenisse a tutti far finta che il governo del presidente René Preval esercitasse un’effettiva autorità sull’isola. A mano a mano che la polvere si posa sulle rovine e sui morti, diventa però sempre più difficile che la finzione possa continuare e ancor meno probabile che la popolazione locale sia disposta a riconoscere una qualche legittimità alle istituzioni della Repubblica caraibica, schiantate dal terremoto insieme con le vite dei cittadini di Port-au-Prince e le loro povere cose.
Al di là delle forme che si riusciranno a individuare, Haiti necessita di una assunzione in carico da parte della comunità internazionale, per un tempo che sarà tutto fuorché breve. Ancorché tra le cause immediate del dissesto haitiano (e men che meno tra quelle del terremoto) non sia da annoverare una guerra civile, l’occupazione da parte di una potenza straniera, la pulizia etnica o il fanatismo religioso, quello che si prospetta per il Paese è un intervento dal respiro, dalla durata e dalla consistenza di quelli messi in atto in Bosnia, a Timor Est, in Kosovo e in Afghanistan. Sempre che non si voglia lasciar scivolare il popolo haitiano in un girone dantesco analogo a quello somalo. Si tratta di una sfida per tutta la comunità internazionale, che deve riuscire a dar prova di saper intervenire nel nome dell’interesse generale dell’umanità, accantonando inaccettabili rivalità nazionali. Ed è un banco di prova per chiunque ritenga che, mentre occorre continuare a fronteggiare le minacce alla sicurezza e all’ordine internazionale di tipo «classico», proprio cominciando dalla devastata Haiti sia possibile posare la prima pietra per edificare un mondo diverso e migliore. Al di là della ovvia e immediata drammaticità che caratterizza l’emergenza haitiana, essa interpella le capacità del mondo di andare oltre le chiacchiere e le buone intenzioni sul tema della global governance, tanto quanto lo fanno il riscaldamento globale, il depauperamento delle acque, o lo sterminio per fame.
Se questo è vero per tutti i membri della società internazionale, lo è un po’ di più per gli Stati Uniti e per il loro presidente, Barack Obama. Di tale società e del suo ordine, gli Usa sono da oltre 60 anni i maggiori azionisti e i principali garanti, e hanno visto crescere il loro ruolo con il tramonto del sistema bipolare. Nei confronti dell’emisfero occidentale, poi, è dai tempi della «Dottrina Monroe» (1823) che gli Stati Uniti hanno prima rivendicato e poi esercitato un’influenza a lungo esclusiva, e ancora oggi preponderante. Per quanto Haiti sia il tipo di vicino che gli americani preferirebbero non avere nel proprio «backyard», i ripetuti interventi militari nell’isola (1891, 1994, 2004-2005) e una quasi ventennale occupazione (1914-1934), rendono testimonianza di come essa abbia rappresentato e seguiti a rappresentare anche una questione di «interesse nazionale» per Washington: ieri per conservare i proventi delle sua piantagioni, oggi per evitare che flussi di esuli dalle dimensioni bibliche si abbattano sulla Florida. A un anno dal suo insediamento e a poche settimane dalla consegna di un premio Nobel per la pace che ha sollevato più di una polemica, il presidente Obama si trova a dover dimostrare che le speranze e le aspettative evocate dalla sua brillante retorica possono trovare concreta applicazione. E deve farlo in un momento in cui il suo astro appare appannato all’interno degli Stati Uniti, dopo lo «smacco» subito in Massachusetts e con un’America profonda preoccupata per una crisi e una disoccupazione che non mollano, dove tornano a cantare le sirene di un anacronistico neo-isolazionismo.
Se gli Usa non riusciranno a esercitare una leadership efficace in questa crisi, vincendo anche i sospetti e le critiche che già in questi giorni cominciano a serpeggiare, il prestigio del presidente e lo stesso «soft power» americano potrebbero infatti risultarne appannati. Qualche giorno fa, a Kabul, i talebani hanno ricordato a tutti che il vecchio mondo continua, richiamando con brutalità il presidente al suo ruolo di Commander in Chief e alla sua capacità di chiudere i conti con il passato. Nei prossimi mesi, a Port-au-Prince, Obama dovrà raccogliere concretamente una sfida cruciale per il futuro di tutti, a partire dagli «ultimi»: porre la leadership americana al servizio di un nuovo modello di governance davvero globale.
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