Dei Paesi che sono stati i grandi protagonisti della scena mondiale nell’arco di più di mezzo secolo, il Giappone è per molti aspetti quello più singolare: la sua economia ha rivaleggiato per innovazione e ritmo di sviluppo con quella americana, i suoi prodotti tecnologici e le sue auto hanno cambiato il gusto e le abitudini dei consumatori, il sushi domina le mense dei giovani e perfino la letteratura giapponese moderna, da Kawabata a Banana Yoshimoto, ha invaso le vetrine delle librerie di ogni continente. Il Giappone ha avuto il più basso tasso di disoccupazione e il più alto livello di pace sociale del mondo industrializzato e il suo prodotto lordo è ancora, alla fine del 2009, il maggiore in assoluto dopo quello degli Stati Uniti.
Eppure, da qualche tempo in qua, sul Giappone sembrano essersi spenti i riflettori. Nei grandi disegni multipolari che Barack Obama ha proposto al mondo, il Giappone non sembra avere un posto particolare. Nei vertici politici ed economici internazionali, nei vari G8 e G20 che si susseguono, raramente la posizione giapponese si fa sentire e ancor più raramente i grandi mezzi di informazione sembrano interessati a farsene eco.
Quando Obama ha fatto il suo viaggio in Asia nello scorso autunno, ci siamo chiesti tutti se la sua visita in Cina avesse segnato un punto a suo favore o se fosse stata un’occasione perduta. Ma della visita fatta allora in Giappone non si è quasi parlato, se non per i dissensi sulla base americana di Okinawa e perché il Presidente americano, a differenza di suoi predecessori, non ha fatto una tappa di omaggio a Hiroshima. E neppure a Copenaghen, dove le posizioni americane, cinesi, russe ed europee si sono confrontate apertamente, è emersa una chiara posizione giapponese.
Sono passati 40 anni, ma sembrano passati secoli, da quando Kissinger intuì che se non si fosse associato più strettamente il Giappone al binomio America/Europa attuato con la Nato, la partita con l’Unione Sovietica non si sarebbe vinta. Fu creata allora, e Gianni Agnelli fu tra i fondatori, la Commissione Trilaterale, quella singolare istituzione, a lungo e ferocemente odiata dai no global, dove la politica, gli affari e la cultura di tre mondi si incontrano attraverso personalità di fama e di potere. Ma cosa fa sì che oggi, invece, del Giappone si parli poco quando si pensa agli equilibri globali, infinitamente meno che della Cina, non solo, ma meno anche dell’India o del Brasile, ai quali pure il Giappone è finanziariamente e industrialmente tanto superiore?
Forse la risposta è che, mentre in questi ultimi venti anni il mondo è venuto trasformandosi, il Giappone è rimasto simile a sé stesso. La globalizzazione gli ha offerto l’opportunità di moltiplicare la diffusione dei suoi prodotti e delle sue tecnologie, ma non ha cambiato il suo animo. Parve che la nuova maggioranza di governo, che dopo essere stata dei liberali per 40 anni è passata con le elezioni dell’estate 2009 al Partito Democratico, avrebbe segnato un rinnovamento complessivo del Paese. Ebbene, quella maggioranza è già in difficoltà. Vecchie abitudini e anche vecchi mali riappaiono, figure come quelle del premier Hatoyama o del brillante Segretario Generale del partito Ozawa, sino a poco fa estremamente popolari, già sembrano appannate, mentre la burocrazia resta fermamente in sella. Un certo nepotismo, certe connessioni tra affari e politica, antichi difetti del sistema, riemergono anche nel Partito Democratico ora al potere. E perfino l’inamovibilità del posto di lavoro, che è stata sempre la chiave del modello giapponese, rivela i suoi lati deboli perché lo rende impermeabile al ricambio e all’arrivo dall’esterno di forze fresche e innovative. La colossale disavventura della Toyota – un vero nome/simbolo dell’industria giapponese – costretta a richiamare più di due milioni di veicoli dal mercato americano per difetti ai freni e il modo incerto e goffo in cui quella disavventura è stata presentata al pubblico, sono il frutto anche di un apparato industriale che più che guardare a ciò che di nuovo succede in giro preferisce guardare al suo proprio ombelico. E se proprio deve guardar fuori, volge gli occhi verso la Cina.
Sono mali che affliggono anche altri Paesi e altri continenti. Così i vecchi rapporti privilegiati finiscono. Che la distrazione con cui Obama tratta il Giappone, quasi dimenticando di avere in lui un potenziale partner della sua politica asiatica, e la distrazione con cui salta i suoi appuntamenti europei abbiano qualcosa in comune?
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