Israel–U.S. Relations: A Deep and Serious Crisis

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Tra Israele e Stati Uniti, la partnership degli ultimi 40 anni è sempre sembrata monolitica, inattaccabile e inossidabile, pur con frequenti divergenze su problemi cronici come quello dei territori arabi occupati da Israele nel 1967. Gli screzi venivano superati. Le fratture insanabili venivano messe da parte. Ma i problemi ostici sono aumentati e divenuti più ostici, e non si riesce più a smaltirli.

Nuovi problemi cambiano il contesto del rapporto tra i due – come, ad esempio, la guerra americana in Afghanistan, l’avanzare della Cina verso il Medio Oriente, le modernizzazioni mediorientali col nuovo ruolo della Turchia, il dinamismo degli emirati del Golfo, e altro ancora. Nel Medio Oriente esteso si gioca una partita decisiva per il futuro ordine mondiale e per definire i confini tra il potere asiatico che avanza e quello americano che retrocede. A fronte di ciò, l’occupazione delle terre palestinesi e la politica degli insediamenti, sono ormai pericolosi anacronismi storici. I contrasti tra Stati Uniti e Israele si fanno più acuti perché sono in gioco fattori che confliggono con la partita globale.

L’AIPAC, American Israel Public Affairs Committee, la più importante tra le organizzazioni della Lobby filoisraeliana degli Usa, è assai influente al Congresso. Le sue conferenze annuali sono sempre state importanti show politici, in cui un gran numero di membri del Congresso e di esponenti di rilievo dell’Amministrazione ribadivano la solida amicizia tra i due Paesi e il solenne impegno americano per Israele. La conferenza AIPAC che si tiene in questi giorni ha rispettato il rituale senza però risolvere i contrasti di fondo tra l’Israele di Benjamin Netanyahu e l’America di Barack Obama. Israele rifiuta la linea di Obama sui territori occupati (alt agli insediamenti e operare per uno Stato palestinese), sul processo di pace (Obama è a favore del piano di pace arabo del 2002 rifiutato da Israele) e sui rapporti con l’Iran (Obama cerca un dialogo diplomatico, Israele vuole un attacco militare). Nel suo primo anno, su questi punti, Obama, ha ceduto all’intransigenza di Israele e della Lobby.

Un anno fa, la Lobby, in una significativa prova di forza, ha fatto fallire, con una campagna denigratoria, la nomina di Charles W. Freeman a numero due dell’intelligence nazionale. La novità pericolosa di oggi è un rapporto del generale David Petraeus, uno degli ufficiali più in vista a Washington, e responsabile del settore mediorientale (esclusi Israele e i territori palestinesi che rientrano nel «comando europeo»), secondo cui il prestigio politico degli Stati Uniti in Medio Oriente e Asia sud-occidentale e le relative possibilità militari in Iraq, in Afghanistan e nel nuovo fronte pachistano, sono seriamente compromessi dalla dura politica di Israele verso i palestinesi. Questa alimenta l’estremismo islamico ed è profondamente avversata dalle élite politiche della regione secondo le quali Israele gode dell’appoggio incondizionato degli Stati Uniti.

L’ammiraglio Michael G. Mullen, comandante delle forze armate americane, andato in Israele a spiegare la situazione, è stato accolto freddamente. Netanyahu ha finto di non capire. Quando, poi, è arrivato in visita il vicepresidente Joe Biden, Israele ha scelto la linea della provocazione, annunciando la costruzione di 1.600 nuovi appartamenti (per israeliani ebrei) nella parte araba di Gerusalemme, conquistata nel 1967 e la cui annessione a Israele non ha avuto alcun riconoscimento internazionale. Nella storia dei rapporti tra Stati Uniti e Israele, il deliberato affronto a Biden e agli Stati Uniti è senza precedenti. La magia mediatica della conferenza AIPAC non ha rimesso le cose a posto. Tra i due Paesi si apre una crisi molto grave e profonda.

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